martedì 28 gennaio 2020

Gridavano, imploravano aiuto
Quei 135 in ostaggio del Viminale
Per cinque giorni sulla nave, che essendo della Guardia costiera è territorio italiano. Ecco come nasce l'accusa a Salvini

ROMA - Il comandante Carlo Giarratano se le ricorda bene quelle urla nel buio: «Gridavano, imploravano aiuto, la prima cosa che ci chiesero fu un secchio per buttare via l'acqua che entrava nel gommone. Mi sono sempre chiesto se uno solo dei nostri politici abbia mai sentito nel buio della notte, nell'enormità del mare, levarsi delle grida d'aiuto disperato».
Cominciano così i sei giorni di passione dei migranti della Gregoretti. Era la notte del 25 luglio scorso e, in zona Sar maltese, il peschereccio "Accursio Giarratano" della marineria di Sciacca stava pescando pesci sciabola. Una battuta interrotta - come già altre volte - da un salvataggio in mare anche se questa volta c'era il decreto sicurezza-bis in mezzo. «Conosciamo una sola legge, quella del mare, non lasceremmo mai nessuno alla deriva. Possono darci tutte le multe che vogliono, non siamo ricchi, siamo dignitosamente pescatori», dissero i Giarratano che, comunque, dopo aver messo in sicurezza i migranti attesero l'arrivo di una motovedetta della Guardia costiera. I migranti il giorno dopo finirono sulla Gregoretti, i pescatori di Sciacca sulla copertina di Uomo Vogue.
Alle 7.40 del 26 luglio, quando i marinai della Gregoretti (nave della Guardia costiera destinata all'attività di vigilanza pesca) avevano ormai ultimato le operazioni di trasbordo dalle due motovedette della Guardia costiera e della Finanza che avevano recuperato, oltre ai 50 del primo gommone, altri 85 da un'altra imbarcazione in avaria, nulla lasciava presagire che il Viminale (che aveva chiesto di andare incontro alle autorità maltesi in difficoltà) dovesse mettersi di traverso. Il comandante Carmine Berlano, avuta indicazione di procedere verso Catania, a mezzanotte era davanti al porto in attesa di autorizzazione. Uno stallo inatteso durato 23 ore durante le quali l'unico sbarco concesso fu quello di una donna nigeriana a fine gravidanza con il marito e altri due bimbi.
È dal momento in cui la Gregoretti si ferma davanti al porto di Catania e avanza richiesta di porto sicuro che il tribunale dei  ministri contesta a Matteo Salvini la condotta di sequestro di persona. Perché, secondo i giudici, quei migranti (già su territorio italiano essendo a bordo di una nave militare italiana) avrebbero dovuto essere sbarcati subito. E invece rimasero su una nave piccola e non attrezzata per cinque giorni. Il primo contrordine arriva 24 ore dopo, alle 23 del 27 luglio, quando ancora il comando generale delle Capitanerie di porto ordina alla Gregoretti di dirigersi verso Augusta.
Quattro ore dopo, alle 3.15, la nave ormeggia al pontile della Nato ma non c'è nessuna accoglienza disposta per i migranti. E infatti nulla accade. A muoversi è solo la Procura dei minori di Catania. A bordo ci sono 16 minorenni che hanno diritto a sbarcare subito. Il Viminale autorizza il 29 luglio e a bordo restano in 115. «Dalla Gregoretti non scende nessun altro», annuncia come al solito Matteo Salvini mentre da Palazzo Chigi parte l'ormai consueta richiesta alla commissione europea di trovare Paesi disponibili ad accogliere quei migranti che l'Italia non vuole.
A bordo della nave uomini e donne si arrangiano facendo la fila agli unici due bagni e riparandosi sul ponte, come possono, di giorno dal caldo e di notte dal freddo. Il comandante spiega che i suoi 30 uomini di equipaggio non sono sufficienti a gestire un così alto numero di persone. Il procuratore reggente di Siracusa Fabio Scavone è un ex Ufficiale di Marina e non resta a guardare. Il 30 luglio, al quinto giorno, manda a bordo un'ispezione sanitaria e viene fuori che in 29 hanno la scabbia e che la nave non presenta le condizioni igieniche adeguate. Il procuratore chiede lo sbarco immediato di tutti i migranti e il 31 luglio il Viminale finalmente autorizza e tutti vengono condotti nell'hotspot di Pozzallo dopo che cinque Paesi europei, Germania, Portogallo, Francia, Lussemburgo e Irlanda, ma anche alcune strutture della Cei, offrono la disponibilità alla redistribuzione.
Abbracci, canti e scene di giubilo accolgono la  notizia dello sbarco. Non immaginano però i migranti che per la libertà dovranno attendere ancora. Molti di loro addirittura cinque mesi, sempre chiusi nell'hotspot di Pozzallo, per giorni sovraffollato. Perché - l'accordo di Malta era ancora da venire - dalla dichiarazione di disponibilità ad accogliere all'effettivo ricollocamento dei migranti tanto è passato. Gli ultimi, quelli destinati alla Germania, sono saliti su un aereo per Berlino il 21 dicembre, alla vigilia di Natale.  
Alessandra Ziniti

(la Repubblica 21 gennaio)