ATTRAVERSANDO
IL DESERTO DELL’ODIO
Il
giorno della memoria è diventato, con il procedere degli anni,
sempre di più un topos
della cultura celebrativa del mondo occidentale e, a misura che i
testimoni diretti dello sterminio ci lasciano per ragioni
anagrafiche, la responsabilità delle nuove generazioni si configura
come una sfida a tenere fermo e adamantino il senso autentico di
quella memoria.
Il
rischio che incombe sul futuro si presenta con molteplici aspetti fra
i quali: la retorica, la falsa coscienza, il negazionismo, la
banalizzazione, la ridondanza, l’uso strumentale, la
sacralizzazione.
Primo
Levi pose al più celebre e diffuso volume della sua opera di
testimonianza e di riflessione sul genocidio e sul sistema
concentrazionario della morte, il titolo “Se
questo è un uomo”.
Ecco,
il più atroce crimine della storia è stato commesso da uomini
contro uomini.
E’
giusto indagare, conoscere, comprendere e trasmettere il sapere delle
diverse modalità e specificità delle ragioni con cui lo sterminio
fu preparato e perpetrato. Ma è imprescindibile sapere che si trattò
della distruzione di esseri umani, dall’annichilimento della loro
dignità e della loro integrità.
La
memoria di quell’orrore deve entrare a fare parte delle più intime
fibre della primissima formazione di ogni essere umano, nell’unica
forma che possa garantire il non ripetersi della sottocultura
dell’odio che fu il ventre gravido che generò la peste dello
sterminio di massa e del genocidio, la consapevolezza culturale,
interiore e psichica dell’universalità dell’essere umano, il cui
statuto di titolarità è contenuto nella Carta Universale dei
diritti dell’uomo, a partire dal primo articolo: “tutti
gli uomini nascono liberi ed eguali, pari in dignità e diritti”.
Ma
noi siamo lontani anni luce da un simile livello di coscienza, anzi
siamo pesantemente regrediti riguardo ai principi fondativi delle
grandi Carte dei diritti, in particolare della nostra straordinaria
Costituzione.
Questa
legge delle leggi, che definisce il carattere nazionale della nostra
repubblica e su cui tutti i governi giurano, è costitutivamente
antifascista senza se e senza ma.
Ma
in questi anni abbiamo visto crescere il revanscismo nostalgico o
neofascista, le nostre televisioni si sono riempite di pseudo
revisionisti miranti a riabilitare i peggiori criminali fascisti, a
partire dal peggiore e più vile di essi, Mussolini.
I
conservatori di questo Paese hanno espunto lo studio della
Costituzione dalle scuole superiori, invece di estenderla anche alle
medie, alle elementari e persino alle materne. Le cosiddette sinistre
riformiste hanno lasciato fare. Molti gazzettieri si sono baloccati
con il mito fradicio e nocivo degli italiani brava gente, che oggi si
ritrova sotto il nuovo e patetico maquillage “Gli italiani non sono
razzisti” o sotto quello ridicolo “io non sono razzista, ma…”.
Sia
chiaro, in Italia ci furono ai tempi del fascismo tante brave persone
e anche oggi milioni di italiani sono magnifiche persone generose, ma
allora come adesso lo erano perché brave persone, non perché
italiani.
I
fascisti italiani perpetrarono un genocidio in Cirenaica, uno
sterminio di massa in Etiopia, 135.000 civili sterminati in due
giorni con l’iprite e devastarono con massacri, pulizie etniche,
campi di concentramento in cui si facevano morire civili di fame e
malattie, le terre della Iugoslavia.
Un
popolo di brava gente non avrebbe permesso di cacciare bambini dalle
scuole per poi destinarli allo sterminio solo per la colpa di essere
nati e si sarebbe comportato come i bulgari e i danesi che salvarono
tutti i loro ebrei opponendosi ai criminali nazisti.
Ecco
il grande nemico di una memoria che può edificare un futuro di
giustizia sociale e uguaglianza: la retorica propagandistica e auto
assolutoria che porta alla vile indifferenza di massa.
Il
ventre della sottocultura dell’odio è ancora fortissimo in ogni
parte del mondo, lo si capisce guardando la semina di morte degli
emigranti
e, persino uno Stato che si definisce ebraico, ha potuto varare una
legge razziale come la legge dello Stato nazione che discrimina i
palestinesi non solo dei territori occupati ma anche quelli di
passaporto israeliano. Non basta mettersi uno zucchetto in testa una
volta all’anno per ottenere il certificato di buona condotta.
Moni
OVADIA