domenica 22 marzo 2020

integrazione o contaminazione?

Altro che 'relazioni'. L'acidità ci inquina. Stiamo diventando corazze. Più che luoghi d'incontro, siamo spesso piccoli centri di scomunica reciproca. Tendiamo a chiuderci. La trincea ci affascina più del crocicchio. L'isola sperduta, più dell'arcipelago. Il ripiegamento nel guscio, più della esposizione al sole della comunione e al vento della solidarietà. Sperimentiamo la persona più come solitario auto-possesso, che come momento di apertura al prossimo. E l'altro, lo vediamo più come limite del nostro essere, che come soglia dove cominciamo a esistere veramente».
Era il 12 Aprile del 1987, Domenica delle Palme, quando don Tonino Bello firmava questa lettera ai suoi «carissimi fratelli». Erano tempi abbastanza tranquilli, eppure il suo sguardo vigile e attento avvertiva già l'aria di declino... Ci sarebbe da chiederci cosa scriverebbe oggi, di fronte al rigurgito egoista e neofascista dei paesi ricchi! Carmelo Vigna e Stefano Zamagni hanno curato nel 2003 un bel libro collettivo dal titolo «Multiculturalismo e identità», edito da «Vita e Pensiero di Milano», là dove si evince che di fronte alle odierne sfide «oggi, commenta Umberto Galimberti, non c'è altra modalità di convivenza se non quella del reciproco riconoscimento, che non è l'assimilazione che dice: «Tu sei un uomo come noi, dunque non ti resta che elevarti al nostro modo di essere», ne l'integrazione che priva l'altro della sua alterità e quindi del costitutivo della sua identità, ma il sostegno dell'alterità, che evita alle relazioni multiculturali di precipitare nella somma indifferente delle identità puramente accostate e rese esangui nel loro potenziale creativo». A dire il vero, devo confessare che da tempo la parola «integrazione» mi dissona, dentro, in uno stridore indicibile con gli ideali di convivenza che ho maturato e per i quali cerco di spendermi a 360 gradi. Questa parola, soprattutto se pronunciata dai politici di destra e dagli ideologi del primatismo, sta ad indicare la volontà colonizzatrice di chi non accetta diversità ed ha paura di confrontarsi con l'alterità.
Il vescovo di Chieti Bruno Forte ha anche lui denunciato l'equivoco di una certa integrazione propagandata ed esigita da quanti non osano misurarsi con l'altro: «Voler dire l'altro, volerlo portare alla parola, può significare, ancora una volta, in forma sottile, imprigionarlo nelle maglie dell'identità non salvaguardandone la differenza».
Un deficit culturale non di oggi, se la storia ci ricorda la denigrazione, l'emarginazione e gli eccidi che da sempre i singoli popoli hanno perpetrato contro gli «altri» popoli, dimentichi, come amava ripetere don Tonino Bello, che «il convivere è la suprema ragione del vivere» e che la diversità è ricchezza di vita e di saperi, di visioni e filosofie, di etiche e costumi.
Antico peccato originale, se è vera la comune interpretazione del mito di Babele, secondo il quale Dio avrebbe punito l'orgoglio prepotente degli uomini confondendo le loro lingue, come se la pluralità delle lingue fosse una disgrazia!
Mi intriga, invece, la versione originale e personale di Isaiah Berlin che presenta «un Dio adirato non per la smisurata ambizione della torre, ma perché gli esseri umani parlavano un'unica lingua: dunque Dio punì il progetto per la sua uniformità, non per la sua altezza, e regalò agli uomini la benedizione della varietà linguistica» (Cfr. Giancarlo Bosetti, La verità degli altri, p. 41).
E se la diversità e una benedizione e una ricchezza, allora più che l'integrazione che la cancella ci sarebbe bisogno di una contaminazione che la riconosca.
Noi dobbiamo imparare ad amarci nella diversità. Solo così potremo far nascere quella civiltà sognata dall'amico Giancarlo Zizola che nel 2000, su questa stessa rivista, scriveva: «Non si ha civiltà senza relazione, senza complessità, senza contaminazione, senza apertura e riconoscimento dell'altro» (Rocca, n. 19/2000).
Contaminazione, quindi, che è molto più che «integrazione»!
Si tratta, appunto, di un salto di civiltà in un mondo che a noi non piace più chiamare «universo» ma che vorremmo fosse riconosciuto come «pluriverso», in cui l'«altro» sia il terminus ad quem delle nostre relazioni. «Non l'altro da relegare, con sentenza irrevocabile, nel nonsenso, né l'altro da integrare benevolmente dentro la nostra identità, ma l'altro che resti tale e con il quale sia possibile stabilire uno scambio che non preveda come progetto latente la negazione, l'annullamento dell'alterità, ma la sua permanenza» (Ernesto Balducci, L'altro, p. 18).
Aldo Antonelli

(Rocca, marzo 2020)