La parola
indifferenza
Teneramente nevrotica, non apatica ma militante, non un vuoto ma un formicaio, oggi l'indifferenza appare nella sua sostanza diversa da quella del passato, che si esprimeva come un difetto di interesse e di coinvolgimento, come uno stato d'animo prossimo all'abulia, parente dell'accidia e dell'ignavia, l'indifferenza odiata da Gramsci a cui contrapporre l'essere partigiani. Sottile, rarefatta, intessuta nel quotidiano, l'indifferenza contemporanea appare come un'attitudine dell'umore che non si contrappone al desiderio, essendone semmai l'oggetto. È un sentimento - minuscolo ma ostinato come certe ruggini - che si irradia pulviscolare: è un modo di stare nel mondo. Lo osserviamo nell'astensionismo: non in quello di chi non vota perché non si sente rappresentato da nessuno ma nell'astenersi radicale di chi neppure si accorge delle elezioni perché - serenamente inconsapevole - non si è mai percepito come soggetto storico attivo. Ancora più affascinante è l'indifferenza - dinamica, addirittura febbrile - che si manifesta nella partecipazione. Da certe promozioni della lettura all'invito sui social a ritrovarsi in piazza, ci sono iniziative, ognuna in sé virtuosa e condivisibile, che coincidono a volte con il molto rumore per nulla shakespeariano. Una militanza frenetica ma senza conseguenze non lontana da quella sindrome che ci spinge a correre da un evento all'altro così da sentirci sempre presenti e tenere a bada la paura di sparire. Considerandola al netto dei moralismi, l'indifferenza contemporanea risponde al bisogno profondamente umano di ritrarsi - a ogni costo, anche formicolando - in un proprio nucleare ubi consistam: dove ogni operazione, soprattutto le più nevrotiche e convulse, ha somma zero.
Giorgio Vasta