Etica e politica alla prova del Coronavirus
27-03-2020 - di: Valentina Pazé
Ci
stiamo abituando a sentirci ripetere, in modo ossessivo, che da noi ‒
solo da noi e dai nostri comportamenti responsabili ‒ dipenderà la vita
delle persone più fragili ed esposte al rischio di esiti letali da
Coronavirus. Stare a casa il più possibile, evitare i contatti, cambiare
“stile di vita” sembra la chiave per rallentare e, prima o poi ‒ si
spera ‒ fermare, un contagio che sta sovraccaricando un sistema
sanitario al collasso. Come se dall’etica individuale, ben più che dalla
politica, dipendesse oggi la comune salvezza.
C’è,
in questa tesi, qualcosa di vero. Che le nostre scelte individuali ‒ di
consumo, svago, mobilità ‒ producano, cumulativamente, effetti su una
scala infinitamente più ampia di quella delle nostre piccole vite, è
ormai noto. Pensiamo alle questioni ambientali. Fare la raccolta
differenziata, sprecare meno acqua, spostarsi a piedi e in bicicletta
anziché in macchina, mangiare meno carne, possono contribuire in modo
determinante a invertire la rotta della corsa pazza verso la distruzione
del pianeta in cui siamo al momento impegnati.
Ce lo ricorda una nota
pubblicità: «Eni più Silvia è meglio di Eni». Senza il nostro contributo
individuale, il mondo non si salverà. E tuttavia, si tende spesso a
dimenticare la prima parte. Anche «Silvia senza Eni» non basta. Nel caso
specifico, appellarsi a «Silvia» è un modo assai subdolo per deviare
l’attenzione dalle discutibilissime scelte di un’azienda che è stata tra
l’altro recentemente multata per «pratica commerciale ingannevole»,
avendo cercato di contrabbandare come “green” il diesel prodotto con
l’olio di palma (cfr.: http://sbilanciamoci.info/green-diesel-greenwashing-maxi-multa-per-eni/).
Pubblicità ingannevoli a parte, dovrebbe essere evidente che non basta
esortare i cittadini a muoversi in bicicletta, se la città continua a
essere disegnata in funzione dell’auto. O invitare al consumo
responsabile se la filiera alimentare è lasciata nelle mani di colossi
industriali interessati solo al profitto. Come non ha senso invitare a
«stare a casa» e a «indossate la mascherina» se un gran numero di
persone continua ad esser costretta a uscire per motivi lavorativi e le
mascherine non sono messe a disposizione neppure di medici e infermieri
Nel
clima angoscioso e surreale di questi giorni, assistiamo a interviste
di esponenti politici che, dopo avere snocciolato i numeri drammatici
dei contagiati, delle persone in rianimazione e dei morti, concludono
intimando: «State a casa». E minacciando, nel caso non bastino le
raccomandazioni, i divieti e le sanzioni, interventi ancora più
restrittivi (difficile pensare quali, dopo che sono state criminalizzate
anche le passeggiate solitarie in spazi aperti).
Restiamo
a casa, certo. Facciamo la nostra parte, nella consapevolezza che i
virus non fluttuano nell’aria, ma si spostano sulle nostre gambe e più
riduciamo i contatti meno è possibile la trasmissione degli agenti
patogeni. Ma attenzione a non spoliticizzare una questione che non è
esclusivamente demandabile al sapere esperto di medici e scienziati, da
una parte, e alle buone condotte dei cittadini, dall’altra. Se la
metropolitana di Milano, tra le 8.00 e le 9.00 di mattina, era fino a
qualche giorno fa (e forse è ancora) affollata, non sarà perché molti ‒
troppi ‒ uffici e imprese impegnate nella produzione di beni non
essenziali (o addirittura esiziali: le armi!) sono rimaste aperte, per
effetto di una decisione tutta politica? Quanto agli ospedali al
collasso, chiamano in causa le politiche del passato più e meno recente:
di destra, di sinistra, di centro. Tutte concordi nel considerare la
sanità, la ricerca, l’istruzione come rami secchi da tagliare. E se oggi
i ricercatori dichiarano che sarà arduo trovare in tempi brevi un
vaccino non è perché la loro abnegazione sia insufficiente, ma perché
«in un’emergenza è difficile trovare soluzioni se non ci sono stati
investimenti prima» (così il virologo D. Lembo, in un’intervista a
Repubblica Torino del 25 marzo).
C’è
qualcosa di disperato nelle parole di chi sembra quasi suggerire
l’esistenza di un nesso causale tra l’aumento delle morti (che in certe
zone avvengono in casa e non sono neppure conteggiate) e le troppe
persone che fanno sport all’aperto o portano a spasso il cane. E che
invocano l’esercito come panacea per tutti i mali. Christopher Lasch
scriveva che la disperazione non è una buona maestra, essendo spesso
solo l’altra faccia del vacuo ottimismo di chi ‒ passata la buriana ‒
continuerà imperterrito sulla vecchia strada. Speriamo che a guidare la
politica nelle scelte cruciali di questi giorni non sia la disperazione,
ma la fredda consapevolezza della serietà della sfida che si è aperta.
Pur contenendo «misure condivisibili», secondo Giulio Marcon, economista
di “Sbilanciamoci”, il decreto “Cura Italia” è ben lungi dal
rappresentare il salto di qualità che sarebbe necessario. Non c’è
traccia di quel piano straordinario di investimenti pubblici che ‒ non
da ora ‒ sarebbe necessario anche solo per raggiungere il livello di
spesa di Francia e Germania in servizi sanitari, ricerca, istruzione. In
particolare, i fondi destinati ad assumere (a tempo indeterminato)
personale medico e sanitario sono ancora estremamente modesti (cfr. http://sbilanciamoci.info/il-governo-di-fronte-all-emergenza-coronavirus/?spush=dmFsZW50aW5hLnBhemVAdW5pdG8uaXQ=).
Eppure è dalle scelte di oggi e dei prossimi giorni che dipenderà se la
prossima pandemia ci troverà preparati o se tutto si ripeterà nello
stesso modo. E se, pandemie a parte, saremo capaci di rivedere la nostra
scala di priorità, mettendo al primo posto ‒ come prevede la
Costituzione ‒ i diritti delle persone, anziché il mercato.
Volerelaluna 27/3