martedì 24 marzo 2020

Violenza inaudita a New Delhi

I nazionalisti indù più irriducibili sono rimasti per mesi a osservare le proteste delle comunità musulmane contro il governo, finché la rabbia è esplosa nelle più gravi violenze di stampo religioso registrate a New Delhi negli ultimi dieci anni. Negli scontri, che hanno lasciato sgomenta la capitale indiana, sono morte 47 persone e più di trecento sono rimaste ferite. Le tensioni sono state alimentate dalla nuova legge sulla cittadinanza, considerata da molti una minaccia alla società laica indiana e un modo per marginalizzare ulteriormente i duecento milioni di musulmani presenti nel paese.
Nelle ore in cui il primo ministro Narendra Modi accoglieva il presidente degli Stati Uniti Donald Trump nella sua prima visita di stato in India, l'occasione di rafforzare il ruolo di New Delhi sulla scena internazionale si è trasformata in motivo di imbarazzo. Il 23 febbraio, mentre Modi si preparava all'arrivo di Trump, nella zona nordorientale della capitale un gruppo di manifestanti, in gran parte musulmani, protestava contro la nuova legge, che facilita la concessione della cittadinanza agli immigrati iraniani, afgani e pachistani purché non musulmani.
Kapil Mishra, un leader locale del Bharatiya janata party (Bjp), il partito di Modi, che di recente ha perso il suo seggio all'assemblea dello stato di New Delhi, ha tenuto un comizio chiedendo alla polizia di disperdere i manifestanti. "Parlo per conto della folla", ha detto rivolto alla polizia. "Finché Trump sarà qui rimarremo pacifici. Una volta partito, non vi ascolteremo a meno che le strade non siano libere dai manifestanti". Quattro giorni dopo, i morti negli scontri tra indù e musulmani sono arrivati a 32.
I quartieri teatro delle violenze sembravano zone di guerra. Poliziotti in mimetica armati di manganelli marciavano per le strade invase dai vetri rotti e dai veicoli carbonizzati mentre i residenti sbirciavano timorosi dietro i cancelli chiusi a chiave. A guidare gli agenti, il commissario O.P. Mishra, che aveva il compito di tranquillizzare gli abitanti del quartiere. Ma alcuni musulmani hanno accusato la polizia di aver aiutato le bande di indù ad appiccare il fuoco a diverse moschee e a un santuario.
Dato che New Delhi è territorio federale, la polizia locale fa capo direttamente al ministro dell'interno Amit Shah, fedelissimo di Modi. Gli agenti hanno negato di aver aiutato le folle di indù o di essere rimasti fermi davanti alle violenze. Ma alcuni video mostrano poliziotti immobili mentre gruppi di indù aggrediscono dei musulmani. In altri video si vedono agenti ordinare ai musulmani di cantare l'inno nazionale indiano. L'alta corte di New Delhi ha rimproverato la polizia per non aver impedito gli scontri. "Kapil Mishra ha le mani insanguinate. E lui il responsabile", dice Hari Singh Solanki, indù, che negli scontri ha perso il figlio, ucciso da un proiettile.

Una conferma dolorosa
Dopo la sua riconferma al governo, lo scorso maggio, Modi ha cominciato a realizzare aggressivamente il programma nazionalista indù del suo partito: dalla revoca dello statuto speciale del Kashmir, l'unica regione indiana a maggioranza musulmana, al sostegno a una recente sentenza della corte suprema che consente la costruzione di un tempio indù sul sito di una moschea distrutta nel 1992 da folle inferocite di fedeli indù.
La legge sulla cittadinanza approvata a dicembre ha aperto la strada a un registro nazionale dei cittadini che potrebbe portare all'incarcerazione o all'espulsione degli stranieri, e sembra aver incoraggiato tanto i seguaci di Modi quanto i suoi oppositori. La furia della folla, formata soprattutto da indù che hanno attaccato le case e i luoghi di culto musulmani, è una conferma dolorosa delle tensioni religiose in aumento da quando Modi è al potere. gim
E. Schmall e S. Saaliq, Associated Press, Stati Uniti

(Internazionale 1348, 6 marzo 2020)