Sono
parroco in quattro piccole comunità nella diocesi di Brescia e
precisamente in Alta Valle Camonica; le mie comunità unite assommano
a circa 2200 abitanti e, per ora, il virus non è ancora entrato in
modo violento nella nostra vita: qui, a differenza di altre zone
della nostra provincia, abbiamo pochi casi, quasi tutti in via di
guarigione. Ovviamente anche da noi sono entrate, ormai da un mese,
le varie norme per poter arginare l’epidemia e queste hanno
riguardato, giustamente, anche le celebrazioni religiose e di culto.
È stata sospesa ogni celebrazione, incluse quelle dei matrimoni e
dei funerali, ogni tipo di riunioni o incontri e così ci siamo
trovati in un deserto liturgico, secondo me molto importante, proprio
in un tempo come quello della Quaresima che per noi cattolici è
sempre stato vissuto e visto come il tempo liturgico più forte e più
impegnativo. Personalmente penso che questa sia un’occasione
propizia e, direi, provvidenziale per rileggere la nostra
spiritualità cattolica molto impregnata di ritualismo e di
devozionismo per chiederci che cristiani vogliamo essere e
soprattutto su cosa costruire la nostra fede. Ho cercato, in questi
giorni, di inviare tramite i social, ogni giorno, una riflessione
sulla Parola di Dio, di raggiungere le persone sole con una
telefonata e, poi, di invitare i miei fedeli a ritornare alla lettura
in casa della Parola come lampada ai nostri passi incerti e faticosi
di questo periodo. Alcuni mi hanno sottolineato la loro sofferenza
per non poter partecipare alla celebrazione domenicale o addirittura
feriale, altri hanno capito che il nostro essere discepoli di Gesù
non è solo vivere dei riti, ma viverlo nella nostra esperienza
quotidiana. Personalmente ritengo proficuo questo tempo che è stato
svuotato da tante cose: penso solo a tutte le celebrazioni della
settimana santa, ai vari riti quaresimali: abbiamo fatto un po’ di
digiuno necessario che ci ha portato, se lo vogliamo, a condividere
anche l’emarginazione dalla Cena del Signore; purtroppo nella
chiesa di Roma sono ancora troppi quelli che, per regole umane e non
certo divine, non possono accostarsi al banchetto; per un gioco della
vita siamo passati dall’altra parte della barricata. Questo è una
scuola di vita, e potrebbe essere una scuola di cristianesimo. Noi
presbiteri siamo stati invitati dai vescovi a celebrare ugualmente,
da soli, a porte chiuse, ed a vivere momenti personali di devozioni
varie: personalmente, mi sono adeguato all’invito dei vescovi per
quanto riguarda la celebrazione domenicale che ho anche reso visibile
tramite il web, ma mi permetto di dire che la cosa mi è sembrata un
pochino assurda, perché non si è trattato della sola preghiera.
Abbiamo sempre detto che la celebrazione eucaristica ha valore perché
c‘è il popolo di Dio che vi partecipa, che fa la chiesa, che non
ha senso celebrare da soli, e poi mi viene proposto questo...; una
visione molto tridentina del presbiterato e anche della Cena del
Signore, dove ciò che vale è il prete. Mi sono chiesto: ”ma se io
sono prete per una comunità e non per me stesso, se la comunità non
può esserci, come in questo caso, non c’è eucaristia, si adottano
altre forme, ma non si celebra da soli... che senso ha?” Mi ha
confortato molto leggere un articolo apparso sulla rivista Il Regno
della teologa Simona Segoloni dal titolo, molto significativo: ”Senza
presbitero no, senza popolo sì“, dove anche lei sostiene che
dietro a tutto ciò c’è una visione molto tridentina e che
dovremo, al termine di questa emergenza, parlarne, ma (questo è il
mio pensiero) penso che non avverrà nessun ripensamento,
purtroppo... Anche altre forme devozionali proposte non mi sono
sentito in coscienza di adottare, come ad esempio uscire per le
strade con crocefissi o reliquie per invocare la grazia della
cessazione della pandemia, con tutto il rispetto per chi ci crede; io
non ci credo, anzi mi sembra che stiamo alimentando una fede troppo
infantile e che non stiamo aiutando i nostri fedeli a diventare
adulti, non stiamo dando loro un cibo solido, ma questo è un peccato
dei pastori, iniziando da chi sta al vertice. Non voglio
assolutamente fare polemica, ma è ciò che credo ed è quello che in
questo tempo ho sperimentato. Per me, questa era un’occasione per
ripartire, per mostrare cosa è veramente l’essenziale della nostra
fede in Gesù, e ho paura che, come chiesa di Roma, abbiamo perso
un’opportunità importante. Non biasimo chi ha bisogno di segni, o
di devozioni, ma permettetemi di dire che questo, però , è lontano
anni luce dal messaggio di Gesù. Quindi nelle mie comunità cerco di
costruire, anche ai tempi del coronavirus, una fede che parta dalla
Parola, che cerchi l’Eucaristia come celebrazione di popolo, di
comunità riunita e non come gesto privato del prete, una fede che
sfoci in gesti d’amore e soprattutto che parli all’uomo e alla
donna del terzo millennio con gesti e significati che possono essere
compresi oggi e che non potevano esserlo nel Medioevo.
GIUSEPPE MAGNOLINI Parroco.Ospitalità eucaristica - numero 17, Aprile 20