"Io mi salvo da solo" che grande illusione
Roberto Saviano
L’idea
che hai dell’emergenza Covid-19 cambia a seconda del luogo in cui ti
trovi. L’Italia non è colpita dalla pandemia in egual misura, dunque la
prospettiva cambia a seconda che tu viva al Nord o al Sud. Cambia
notevolmente. Così come le informazioni che ti raggiungono hanno un peso
specifico diverso, vengono rielaborare, recepite e commentate in modo
diverso. L’ascolto e il confronto sono fondamentali ora, non perché
portano a comprendere cause o a prevedere effetti, ma per prepararsi,
per seguire buone pratiche o per evitare errori, magari commessi in
buona fede, ma che non hanno aiutato. In più, quello che oggi siamo
chiamati a fare è dare fondo alle nostre conoscenze acquisite negli
anni, e utilizzarle per tranquillizzarci, per razionalizzare, per
riuscire ad accogliere tutte le informazioni senza farci prendere dal
panico
Medici,
scienziati, virologi, ricercatori ne sanno più di tutti, il resto sono
parole dette o scritte per testimoniare, ecco: non dobbiamo permettere a
queste parole di allarmarci, non dobbiamo perdere la consapevolezza che
tutto questo finirà. E mentre aspettiamo, prepariamoci alla fatica
della ricostruzione, sapendo però che lo faremo insieme.
Ancora
diversa poi è l’idea che hai di ciò che sta accadendo, se osservi tutto
da un Paese diverso dall’Italia che oggi è considerato, globalmente,
tra i paesi più colpiti dalla pandemia e tra quelli che stanno pagando
il prezzo più alto.
Nessuno
ha ancora pienamente compreso perché l’Italia sia stata colpita con una
tale violenza dal virus e dunque non esistono ricette, non esiste una
strada da evitare o una da percorrere per sentirsi al sicuro, a parte,
naturalmente, l’obbligo di stare in casa. Quel che è certo, però, è che
l’isolamento, la capacità che ciascuno di noi ha di comprendere quanto
vale il proprio senso di responsabilità, oggi è il primo atto da
compiere. Poi verrà tutto il resto. Ed è un gesto tutto sommato
semplice, eppure quanto ci sta costando…
A
New York, dove mi trovo in questo momento, le cose sono illuminate da
una luce diversa. Qui politici, nella sostanza abituati a una propaganda
spinta fino alle estreme conseguenze, non hanno cambiato attitudine e
questo ha reso le persone ancora più insicure dinnanzi a ciò che
accadeva altrove e che presto sarebbe potuto accadere a casa propria.
L’accaparramento di armi è stata la risposta più evidente a una
incertezza che cresce, alla paura dei saccheggi, alla paura di scarsità
di cibo, quasi si potesse davvero pensare mors tua vita mea. Presentare
l’emergenza Covid-19 come una guerra che tutti insieme dobbiamo
combattere è forse l’errore più madornale che si possa commettere.
Ricreare scenari di guerra in un mondo, come quello Occidentale, che
ormai della guerra non ha più alcun ricordo concreto è irresponsabile.
In guerra manca tutto perché ciò che per primo viene distrutto sono le
vie di comunicazione, bombardate per non far procedere il nemico. In
guerra ciò che viene distrutto sono gli ospedali, per non dare tregua al
nemico; ora, al contrario, gli ospedali vengono potenziati, ingranditi,
ampliati. Non è guerra, è emergenza, è tragedia anche, ma non è guerra.
Chi
oggi è ascoltato ha il dovere di invitare alla razionalità. E invitare
alla razionalità significa dire come il “mi salvo da solo” di chi compra
armi pensando di doverle usare sia un abominio, la strada più sbagliata
da percorrere. Sempre, ma oggi di più.
La
questione è che non ci si salva da soli, ma allo stesso tempo è
difficile chiudere (se stessi in casa, attività, fabbriche) sapendo che
non verrai aiutato… Ecco perché oggi tutti i Paesi devono ragionare in
un’ottica di solidarietà: ci rialzeremo insieme solo se chi oggi sta
subendo maggiori perdite, potrà contare sul sostegno dei Paesi meno
colpiti. L’Italia si scopre più unita che mai, nel dolore sì, ma anche
nell’aiuto. Se in un comune terminano i posti in terapia intensiva, si
va in un altro comune, in un’altra regione, anche a centinaia di
chilometri di distanza.
Io,
per la mia esperienza di persona sotto scorta, in questi giorni ho
ragionato molto su come ci si senta a stare chiusi senza poter uscire
liberamente. Vivo una libertà ridotta dal 2006, ma la mia sensazione è
sempre stata quella di me fermo mentre il mondo fuori continuava a
muoversi, come se io fossi sempre in ritardo, come se mi stessi sempre
perdendo qualcosa.
Oggi
è tutto diverso, perché stare in casa, stare lontani gli uni dagli
altri, non genera e non deve generare un senso di esclusione ma, al
contrario, un forte, fortissimo senso di comunità.
L'Espresso 29/3