Dalla Nobel alla giornalista: l’offensiva per zittire le donne della nuova Asia
CHENNAI (INDIA) — L’arresto in Birmania della premio Nobel Aung San Suu Kyi con la scusa che aveva presumibilmente acquistato senza autorizzazione tre walkie talkie mette in rilievo un fenomeno che accomuna diversi Paesi asiatici: quello di zittire le voci delle donne con pretesti giuridici. In questo istante, ci sono quattro storie che dimostrano questa coazione a ripetere in Asia.
Anchan era una sconosciuta pensionata 63enne ora famosa in Thailandia per avere condiviso su YouTube e Facebook un podcast che criticava la monarchia.
L’autore del podcast è già libero dopo due anni di prigione, mentre Anchan è stata condannata alla più severa pena di lesa maestà nella storia del Paese: 43 anni di prigione. Zhang Zhan era una avvocata 37enne di Shanghai.
La scorsa primavera, all’inizio della pandemia, ha preso un treno per Wuhan dove ha girato dei video.
Per aver trasmesso le sue chiacchierate con passanti e agenti di polizia, cui chiedeva delucidazioni sull’epidemia, è stata condannata a quattro anni per «aver creato guai e cercato di litigare». Il personale del carcere la hanno convinta a non andare in appello. Maria Ressa è una giornalista filippina di 57 anni, che dopo vent’anni alla Cnn ha fondato il giornale online Rappler . Persona dell’anno per Time nel 2018 e nominata per il Nobel per la Pace quest’anno, è stata condannata per "diffamazione online" per un articolo su un imprenditore, un chiaro pretesto per zittire la voce più critica contro il presidente Rodrigo Duterte. La sua avvocata Amal Clooney dice che «si tratta di una campagna sempre più trasparente per chiudere il giornale, così come hanno fatto con le principali emittenti del Paese». Rischia fino a 100 anni di prigione per accuse che Reporter senza Frontiere definisce "kafkiane".
E veniamo all’ultima storia. Più lunga, ma a lieto fine. Asia Bibi è una contadina cattolica pachistana che oggi ha 50 anni, originaria di Ittan Wali, paesino a 40 km da Lahore. Nel 2009 si ferma a un pozzo a bere da un bicchiere di alluminio. La vicina di casa, con cui è in conflitto per una capra ferita, l’aggredisce dicendo che ai cristiani è proibito usare i bicchieri dei musulmani e che avrebbe dovuto convertirsi all’Islam. Asia Bibi risponde: «Cosa ha fatto il tuo profeta Maometto per salvare l’umanità? E perché dovrei essere io a convertirmi e non tu?». La folla la picchia. Iniziano i processi culminati con la prima condanna a impiccagione per una donna nella storia del Pakistan. Viene confinata in isolamento in attesa dell’esecuzione. Ma è qui che Amnesty International e Human Rights Watch, oltre alla richiesta di clemenza di Papa Benedetto XVI, cambiano le cose. Petizioni online e canzoni titolate "Free Asia Bibi" fanno breccia nella diplomazia. Che fa pressioni su Islamabad per un processo equo. Nel 2018 la Corte Suprema, citando incongruenze nelle testimonianze, la assolve tra proteste dei fondamentalisti. Viene rilasciata e nel 2019 può partire per il Canada, dove ora vive con la famiglia.
C’è qualcosa che accomuna le storie di queste donne: gli uomini che le vogliono zittire. La voce delle donne sta scomoda al potere nazionalista patriarcale rappresentato dalla monarchia thailandese puntellata dai militari, dal regime comunista di Xi Jinping, dal caudillismo di Rodrigo Duterte e dalla prepotenza del fondamentalismo islamico, così come dai militari birmani. Ecco il perché di queste punizioni esemplari. In molte nazioni asiatiche c’è qualcosa di rivoluzionario in una donna che dice che il re è nudo. Per questo il potere inveisce. La voce di una donna dà più fastidio perché potenzialmente più pericolosa.
La buona notizia è che esiste anche la storia di Asia Bibi che si vedeva appesa a una forca in un carcere pachistano. Invece, grazie a chi crede ancora nella possibilità di smuovere la diplomazia per difendere valori fondanti come i diritti di opinione, informazione e culto, a volte una via d’uscita c’è. Non è vero che non serve, funziona. Basta chiederlo a una contadina pachistana che ora vive in un luogo segreto in Canada, perché teme ancora che gli uomini che la volevano morta la possano trovare.
Carlo Pizzati, La Repubblica 8 febbraio