"INSEGNARE a TRASGREDIRE" di Gloria Jean Watkins. Meltemi 2020
Quando
misi piede nella mia prima aula universitaria per insegnare, decisi di
seguire l’esempio delle appassionate insegnanti nere della mia scuola
elementare, del lavoro di Freire e del pensiero femminista della
pedagogia radicale…. Il primo paradigma che ha plasmato la mia pedagogia
è stata l’idea che l’aula dovesse essere un luogo eccitante, mai
noioso. Entrare nelle classi scolastiche e universitarie con la volontà
di condividere il desiderio di incoraggiare l’eccitazione, significava
trasgredire…”. bell hooks è lo pseudonimo di Gloria Jean Watkins,
straordinaria intellettuale femminista afroamericana di umili origini
ancora troppo poco nota in Italia.
Il suo Insegnare a trasgredire,
appena pubblicato da Meltemi, è un testo appassionato sulla libertà di
pensiero che l’apprendimento e l’insegnamento possono offrire.
Malgrado
la versione originale sia stata scritta vent’anni fa il testo mostra
evidenti risonanze con i contenuti di movimenti come Black Lives Matter e Non una di meno
e con la centralità che la questione scuola ha assunto in questi mesi a
livello mondiale. Abbiamo bisogno di riscoprire la differenza tra
l’educazione come pratica di libertà e l’educazione che rafforza le
diverse forme di dominio, spiega hooks, ma anche di costruire comunità
di apprendimento diverse: per farlo occorre avere programmi flessibili
ed essere consapevoli che l’entusiasmo è sempre generato da uno sforzo
collettivo.
“Celebro
l’insegnamento che rende possibili le trasgressioni – un movimento
contro e oltre i confini – per poter pensare, ripensare e creare nuove
visioni. È quel movimento che rende l’educazione la pratica della
libertà…”.
[…] Fin dall’infanzia, ero
convinta che avrei insegnato e scritto. Scrivere sarebbe stato il lavoro
importante, insegnare invece il lavoro
“non-tanto-importante-ma-necessario-per-vivere”. Scrivere, questa era la
mia convinzione di allora, aveva a che fare con il desiderio intimo e
la gloria personale, mentre l’insegnamento riguardava il servizio, la
restituzione alla propria comunità. Per i neri, l’insegnamento –
l’educazione – era fondamentalmente un atto politico, perché radicato
nella lotta antirazzista. In effetti, le scuole elementari per neri sono
diventate il luogo in cui ho sperimentato l’apprendimento come
rivoluzione.
Quasi tutte le nostre
insegnanti alla Booker T. Washington erano donne nere, votate a nutrire
il nostro intelletto per darci la possibilità di diventare studiosi,
pensatrici e operatori culturali – persone nere capaci di usare la
“testa”. Comprendemmo presto che la nostra devozione verso
l’apprendimento e la vita della mente era un atto contro-egemonico, un
gesto fondamentale di resistenza alle strategie di colonizzazione
razzista bianca. Sebbene non definissero o spiegassero queste pratiche
in termini teorici, le mie insegnanti mettevano in atto una pedagogia
rivoluzionaria della resistenza, profondamente anticoloniale. […]
Per
portare a termine questa missione, si assicuravano di “conoscerci”.
Conoscevano i nostri genitori, il nostro status economico, quale chiesa
frequentassimo, le nostre case e come venivamo trattati in famiglia. […]
Frequentare la scuola era, quindi, gioia pura. Amavo studiare, adoravo
imparare. La scuola era il luogo dell’estasi: piacevole e pericolosa.
Sentirmi trasformata dalle idee era piacere puro, ma scoprire idee
contrarie ai valori e alle credenze apprese nell’ambito domestico
significava accettare il rischio, addentrarsi in una zona pericolosa. La
casa era il luogo in cui ero costretta a conformarmi all’immagine di
qualcun altro su chi e cosa avrei dovuto essere. La scuola era il luogo
in cui potevo dimenticare quell’io e, attraverso le idee, reinventarmi.
Con
l’integrazione razziale, la scuola cambiò completamente. Lo zelo
messianico, teso a trasformarci e a plasmare le nostre menti – che aveva
caratterizzato le nostre insegnanti e le loro pratiche pedagogiche
nelle scuole per neri – era finito. Improvvisamente, la conoscenza
riguardava solo l’informazione. Non aveva alcuna relazione con il modo
in cui una persona viveva e si comportava. Non era più collegata alla
lotta antirazzista. Nelle scuole bianche imparammo presto che ciò che ci
si aspettava da noi era l’obbedienza, e non la volontà zelante di
imparare. La passione eccessiva per l’apprendimento veniva facilmente
interpretata come una minaccia all’autorità bianca.
Il
nostro ingresso nelle scuole razziste, desegregate e bianche ha segnato
l’abbandono di un mondo in cui le insegnanti erano convinte che per
educare i giovani neri nel modo più giusto fosse necessario l’impegno
politico. Adesso invece avevamo per lo più insegnanti bianchi, le cui
lezioni rafforzavano gli stereotipi razzisti. Per i giovani neri,
l’educazione non riguardava più la pratica della libertà. Quando me ne
resi conto, il mio amore per la scuola finì. L’aula non era più un luogo
di piacere o estasi. La scuola restava in ogni caso un luogo politico,
dal momento che dovevamo continuamente contrastare i pregiudizi razzisti
dei bianchi che ci consideravano geneticamente inferiori, mai capaci
come i nostri coetanei bianchi – persino incapaci di imparare. Tuttavia,
la nostra politica non era più contro-egemonica. Non facevamo che
reagire e contrastare la gente bianca.
Passare
dalle amatissime scuole per neri alle scuole bianche – in cui gli
studenti neri erano sempre considerati intrusi, mai membri a tutti gli
effetti – mi ha insegnato la differenza tra l’educazione come pratica
della libertà e l’educazione che si sforza semplicemente di rafforzare
il dominio. […] Nonostante queste esperienze fortemente negative, mi
sono diplomata con la ferma convinzione che l’istruzione sia in grado di
valorizzare la nostra capacità di essere persone libere. Quando
cominciai a studiare all’Università di Stanford, rimasi affascinata
dalla possibilità di diventare un’intellettuale nera ribelle. Fu, allo
stesso tempo, una sorpresa e uno choc sedere in classi in cui i
professori non erano entusiasti dell’insegnamento e non sembravano avere
la minima idea che l’educazione riguardasse la pratica della libertà.
Negli anni universitari, l’unica lezione importante era sempre la
stessa: dovevamo imparare l’obbedienza all’autorità.
Alla
scuola di specializzazione l’aula era diventata un posto che odiavo, ma
in cui lottavo per rivendicare e mantenere il diritto a essere una
pensatrice indipendente. L’università e l’aula iniziarono a somigliare
più a un carcere, a un luogo di punizione e di prigionia, piuttosto che a
un luogo di promesse e possibilità. […] Nell’accettare la professione
di insegnante come destino, ero tormentata dalla realtà delle lezioni
che avevo seguito sia come studente universitaria che come
specializzanda. Alla stragrande maggioranza dei nostri professori
mancavano le competenze di base della comunicazione, non si sentivano
realizzati e spesso usavano la classe per inscenare rituali di controllo
che riguardavano il dominio e l’esercizio ingiusto del potere. In
questi contesti ho imparato molto sul tipo di insegnante che non volevo
diventare.
Alla scuola di
specializzazione ero spesso annoiata in classe. L’educazione depositaria
(basata sul presupposto che memorizzare informazioni e rigurgitarle
rappresenti l’acquisizione di conoscenze, che sono dunque depositate,
archiviate e utilizzate in un secondo momento) non mi interessava.
Volevo diventare una pensatrice critica. Tuttavia quel desiderio era
spesso considerato una sfida all’autorità. […]
La
mia reazione allo stress, alla noia costante e all’apatia che
pervadevano le lezioni era quella di immaginare i modi in cui
l’insegnamento e l’esperienza di apprendimento avrebbero potuto essere
diversi. Nel lavoro del pensatore brasiliano Paulo Freire, la mia prima
introduzione alla pedagogia critica, ho trovato un mentore e una guida,
qualcuno che comprendeva il potenziale liberatorio dell’apprendimento.
Attraverso i suoi insegnamenti, e la mia crescente comprensione del
potere derivante dall’educazione che avevo ricevuto nelle scuole del Sud
per neri, ho iniziato a sviluppare il progetto della mia pratica
pedagogica. Già profondamente coinvolta dal pensiero femminista, non
ebbi difficoltà a sottoporre il lavoro di Freire a quella critica. Ero
convinta che il mio mentore e guida (che non avevo mai conosciuto dal
vivo), se davvero credeva nell’educazione come pratica della libertà,
avrebbe incoraggiato e sostenuto la sfida che avevo lanciato alle sue
idee. Allo stesso tempo, utilizzai i suoi paradigmi pedagogici per
criticare i limiti delle lezioni femministe.
Nel
corso dei miei anni di studi universitari e di specializzazione, solo
le docenti bianche venivano coinvolte nello sviluppo di programmi di
Women’s Studies. E anche se la mia prima lezione da studente laureata
verteva sulle scrittrici nere da una prospettiva femminista, era nel
contesto di un corso di Black Studies. A quel tempo, compresi che le
docenti bianche non erano desiderose di coltivare l’interesse delle
studenti nere per il pensiero femminista e le relative borse di studio,
soprattutto se quell’interesse includeva una sfida critica. Tuttavia la
loro mancanza di interesse non mi hai mai scoraggiato dall’abbracciare
idee femministe o dal partecipare alle lezioni sul femminismo. Quelle
aule erano l’unico spazio in cui venivano messe in discussione le
pratiche pedagogiche, dove si supponeva che le conoscenze offerte alle
studenti le avrebbero aiutate a diventare studiose migliori, a vivere
più pienamente nel mondo oltre l’accademia. L’aula femminista era
l’unico spazio in cui ogni studente poteva sollevare domande critiche
sul processo pedagogico. […]
Quando misi
piede nella mia prima aula universitaria per insegnare, decisi di
seguire l’esempio delle appassionate insegnanti nere della mia scuola
elementare, del lavoro di Freire e del pensiero femminista della
pedagogia radicale. Desideravo ardentemente insegnare in maniera
differente da come mi era stato inculcato fin dalle superiori. Il primo
paradigma che ha plasmato la mia pedagogia è stata l’idea che l’aula
dovesse essere un luogo eccitante, mai noioso. E se la noia avesse
prevalso, allora erano necessarie strategie pedagogiche capaci di
intervenire, alterare, addirittura distruggere l’atmosfera. Né il lavoro
di Freire né la pedagogia femminista hanno analizzato la nozione del
piacere in classe. L’idea che l’apprendimento debba essere eccitante, a
volte persino “divertente”, è stato oggetto di discussioni critiche da
parte degli educatori che si occupano di pratiche pedagogiche nelle
scuole elementari e talvolta persino nelle scuole superiori, ma non
sembrava esserci alcun interesse tra gli educatori tradizionali o
radicali nel discutere il ruolo dell’eccitazione nell’istruzione
superiore.
[…] Entrare nelle classi
scolastiche e universitarie con la volontà di condividere il desiderio
di incoraggiare l’eccitazione, significava trasgredire. Questo approccio
non solo richiedeva di superare i confini fissati, ma l’eccitazione non
si poteva generare senza il pieno riconoscimento del fatto che non
poteva esistere un’agenda immutabile, capace di regolare le pratiche di
insegnamento. I programmi dovevano essere flessibili, consentire cambi
di direzione spontanei. Gli studenti dovevano essere considerati nelle
loro peculiarità di individui (ispirandomi alle strategie con cui i miei
insegnanti delle scuole elementari arrivavano a conoscerci
profondamente) e l’interazione doveva necessariamente partire dalle loro
esigenze (in questo caso, l’utilità del pensiero di Freire era palese).
[…]
Tuttavia, l’esaltazione
intellettuale non è sufficiente a creare un processo di apprendimento
coinvolgente. […] Prima di tutto chi insegna deve valorizzare realmente
l’importanza della presenza di ognuno. Ci deve essere un riconoscimento
continuo di come ogni persona influenzi la dinamica della classe, e
contribuisca al processo di apprendimento. Questi contributi sono
risorse. Utilizzati in modo costruttivo, aumentano la capacità di ogni
classe di creare una comunità aperta di apprendimento. Spesso, prima che
questo processo possa iniziare, deve aver luogo la decostruzione della
nozione tradizionale secondo cui solo chi insegna è responsabile delle
dinamiche della classe. […] È difficile che un docente, per quanto
eloquente, riesca a generare attraverso le sue azioni uno stimolo
abbastanza intenso tale da creare un ambiente scolastico entusiasmante.
L’entusiasmo è generato dallo sforzo collettivo.
Considerare
l’aula un luogo comunitario aumenta le possibilità di riuscita dello
sforzo collettivo volto a creare e sostenere una comunità di
apprendimento. In un’occasione ebbi una classe molto difficile, che
fallì completamente in quanto comunità. Per l’intero semestre, fui
convinta che il principale inconveniente che inibiva lo sviluppo di una
comunità di apprendimento fosse che la lezione era programmata al
mattino presto, prima delle nove. Quasi sempre, almeno un terzo, se non
metà, della classe non era completamente sveglia. […] L’orario fu solo
uno dei fattori che impedirono a questa classe di diventare una comunità
di apprendimento. Per ragioni che non so spiegare, era anche piena di
studenti “resistenti” che non volevano apprendere nuovi processi
pedagogici, che non desideravano essere in una classe diversa dalla
norma. Per questi studenti, trasgredire i confini era spaventoso. E
sebbene non fossero la maggioranza, la loro strenua resistenza sembrava
essere assai più potente di qualsiasi volontà di apertura intellettuale e
piacere nell’apprendimento. Più di qualsiasi altra classe alla quale ho
insegnato, questa mi ha costretto ad abbandonare l’idea che chi insegna
possa, per pura forza di volontà e desiderio, rendere la classe una
comunità stimolante e istruttiva.
Prima
di questo corso, ero convinta che Insegnare a trasgredire sarebbe stato
una raccolta di saggi principalmente rivolto agli insegnanti. Alla fine
delle lezioni, ho iniziato a scrivere con la consapevolezza che mi stavo
rivolgendo a entrambi, studenti e docenti. […] Le mie pratiche
pedagogiche sono emerse dalle interazioni illuminanti di pedagogie
anticoloniali, critiche e femministe. Questa combinazione complessa e
unica di molteplici punti di vista ha rappresentato una prospettiva
coinvolgente e potente con cui lavorare, che mi ha permesso di superare
confini, di immaginare e mettere in atto pratiche pedagogiche utili a
mettere in discussione, senza mezzi termini, i pregiudizi che rinforzano
i sistemi di dominio (come il razzismo e il sessismo) nei programmi di
studio, fornendo contemporaneamente nuovi modi di insegnare a gruppi di
studenti differenti.
In questo libro
condivido approfondimenti, strategie e riflessioni critiche sulla
pratica pedagogica. Considero questi saggi alla stregua di un intervento
capace di contrastare la svalutazione dell’insegnamento, anche se
affrontano la necessità urgente di cambiarne le pratiche. Devono servire
come commenti costruttivi, pieni di speranza ed esuberanti, e
trasmettere il piacere e la gioia che provo a insegnare; questi saggi
sono celebrativi! Sottolineano che il piacere dell’insegnamento è un
atto di resistenza che contrasta la noia opprimente, il disinteresse e
l’apatia che così spesso caratterizzano il modo in cui docenti e
studenti considerano l’insegnamento, l’apprendimento e l’esperienza in
classe.
Ogni saggio affronta temi comuni
che emergono ciclicamente nelle discussioni sulla pedagogia, offrendo
modi di ripensare le pratiche di insegnamento e strategie costruttive
per migliorare l’apprendimento. […] Anche se condivido alcune strategie,
questi saggi non offrono schemi utili a rendere la classe un luogo di
apprendimento entusiasmante. Farlo minerebbe l’insistenza sul fatto che
la pedagogia impegnata riconosce ogni classe come diversa, che le
strategie devono essere costantemente modificate, inventate,
riconcettualizzate per affrontare ogni nuova esperienza di insegnamento.
L’insegnamento
è un atto performativo. Ed è l’aspetto del nostro lavoro che dà spazio
al cambiamento, all’invenzione, ai mutamenti spontanei, e può fungere da
catalizzatore per far emergere gli elementi unici di ogni classe. Per
abbracciare l’aspetto performativo dell’insegnamento, siamo costretti a
coinvolgere il “pubblico”, a considerare la questione della reciprocità.
Chi insegna non è un “interprete” nel senso tradizionale della parola,
in quanto il nostro lavoro non vuole essere uno spettacolo. Tuttavia, è
destinato a fungere da catalizzatore, a invogliarci a essere sempre più
coinvolti, a diventare partecipanti attivi dell’apprendimento.
Così
come il modo in cui eseguiamo il nostro spettacolo cambia, anche la
nostra idea di “voce” dovrebbe cambiare. Nella vita quotidiana parliamo
in modi differenti a persone differenti, e comunichiamo meglio quando
scegliamo un modo di parlare informato dalla particolarità e unicità di
coloro con cui parliamo. In linea con questo spirito, questi saggi non
suonano tutti uguali. Riflettono il mio sforzo di usare il linguaggio
per parlare a contesti specifici, così come il mio desiderio di
comunicare con un pubblico diversificato. Per poter insegnare nelle
diverse comunità non devono cambiare solo i nostri paradigmi, ma anche
il modo in cui pensiamo, scriviamo, parliamo. La voce impegnata non deve
mai essere fissa e assoluta: deve cambiare costantemente, evolversi nel
dialogo con un mondo al di là di sé.
Questi
saggi riflettono la mia esperienza di discussioni critiche con docenti,
studenti e individui che hanno assistito alle mie lezioni. Sono pensati
per essere testimonianza dell’educazione come pratica della libertà.
[…] L’istruzione è gravemente in crisi. Gli studenti spesso non vogliono
imparare e gli insegnanti non vogliono insegnare. […] Con questi saggi,
la mia voce si unisce alla richiesta collettiva di rinnovamento e
svecchiamento delle nostre pratiche di insegnamento, esortando tutte e
tutti noi ad aprire le nostre menti e i nostri cuori, in modo da
sviluppare una conoscenza che vada al di là dei confini di ciò che è
considerato accettabile. Celebro l’insegnamento che rende possibili le
trasgressioni – un movimento contro e oltre i confini – per poter
pensare, ripensare e creare nuove visioni. È quel movimento che rende
l’educazione la pratica della libertà.
Tratto da "Quale vita 198".