lunedì 15 marzo 2021

CARCERI E COVID
un'epidemia di disumanità

«Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione» François-Marie Arouet (Voltaire)

Tra potere che non è servizio, una pandemia è un vaccino ancora, tutto da scoprire, c'è molto silenzio a coprire le erranze umane completamente allo sbando, figuriamoci dentro un carcere, soprattutto in una cella sovraffollata, dove ogni cosa-persona è mal riposta. Qualche tempo addietro fra addetti ai lavori e specialisti in diritto penitenziario, vi fu chi ebbe il coraggio autorevole di affermare che: «la sicurezza è diventata un'ossessione, ma non bisogna aspettarsi la soluzione dei problemi da un maggior numero di caserme (io aggiungerei di carceri), e sebbene sia giusta e congrua l'azione delle Forze dell'ordine, non dovremmo mai perdere di vista l'essere umano, la fragilità della vita umana». Oggi con la pandemia a scorrazzare nelle prigioni, non c'è voce che s'alza per chiarire in che condizioni di disumanità e abbandono versano gli istituti di pena italiani. Che ci dice con assunzione di responsabilità quanti i morti a terra e perché. Quanta violenza e illegalità se ne stanno nascoste tra le crepe dei muri costruiti a misura. Cosa si è fatto per circoscrivere l'infezione tra i detenuti. Nonostante le parole lanciate come sassi per elidere responsabilità e dimenticanze, c'è di assodato e incontrovertibile che le presenze in carcere diminuiscono di circa settemila unità, soprattutto a causa dei minori ingressi e non certamente per chissà quale forma di buonismo. Dunque nessun impazzimento dell'Amministrazione e nessuna scriteriata scarcerazione di massa come qualcuno ha  cercato irresponsabilmente di fare intendere. Piuttosto c'è da domandarsi come mai con questi numeri gli istituti sono ancora sovraffollati, privi di strutture sanitarie adeguate. Ma la propaganda come la politica trascurano questi problemi che rimangono strutturali, infatti di tutto questo non c'è traccia alcuna né in tv né sulle prime pagine dei giornali. Da quanto è dato sapere le rivolte scoppiate a causa della pandemia in carcere hanno coinvolto un dieci per cento del totale dei ristretti, portato alla morte 13 persone, al ferimento di alcuni agenti della polizia penitenziaria, oltre alla devastazione di diversi istituti e all'evasione di qualche decina di detenuti.
Il Direttore di un carcere americano ha detto: «Perfino lavarsi le mani può essere non facile, in carcere! I detenuti lo sanno bene, e anche questo li ha portati a comportamenti che restano in ogni caso ingiustificabili, per le modalità violente, e che danneggiano loro stessi, in primis».
Un carcere a misura di uomo significa concedere la possibilità di rivedere con occhi e sguardi nuovi ciò che è stato, soprattutto di intendere il proprio riscatto e riparazione, non come l'assunzione di un mero servizio statuale, che come tale per molti versi rimane uno scarabocchio sulla carta, ma dovrà essere inteso come una vera e propria conquista di coscienza. Inoltre, ma questa è davvero un'utopia irrealizzabile, ogni progetto rieducativo individuale andrebbe collegato a un progetto di struttura, ciò per evidenziare quegli aspetti qualificanti e quello stile di vita pretesi dalle leggi, mai del tutto compresi dalla società. In conclusione non è più dilazionabile l'urgenza di coniugare in modo autentico teoria e prassi, sicurezza e risocializzazione, in quanto entrambe le istanze sono elementi costitutivi della nostra Carta Costituzionale. Viene spontaneo pensare con quale coerenza si vietano assembramenti nella società dei liberi, quando in carcere si accatastano uno sull'altro i corpi morti e vivi dei detenuti? Per quanto tempo ancora si continuerà a chiudere gli occhi di fronte a un problema tornato ad essere drammatico. Questo immobilismo somiglia assai alla patologia dell'oblomovismo, avere un sacco di progetti, di architetture mentali, ma risultare una erranza umana che non costruisce nulla, lasciando ai posteri ruderi e miserie.
Vincenzo Andraous
Rocca 15 febbraio