lunedì 3 maggio 2021

DA PRINCIPIO QUALCOSA ANDO' STORTO: MANCA IL CORAGGIO DI PENTIRSI

 Lo snodo del rapporto tra Israele e Chiesa

Se ho deciso di affrontare da subito - nel nostro piccolo vocabolario ecumenico - lo snodo della rottura fra Israele e la Chiesa (o meglio, fra il polmone giudaico della prima comunità dei fedeli di Gesù, largamente maggioritario nel primo secolo dell’era volgare, e quello proveniente dal paganesimo gentile), è perché sono convinto che proprio lì risieda la lacerazione iniziale e insieme cruciale all'interno della comunità originaria: che non riguarda semplicemente il dialogo interreligioso, ma il cuore dell’identità della Chiesa stessa, l'idea che essa ha di sé, e persino il senso dell’inculturazione della fede presso i diversi popoli. Quella che, fra l’altro renderà possibili, e così traumatiche, le altre rotture nel corso della storia della Chiesa, quelle infracristiane. Se non si fosse dato quel protoscisma, le fratture successive, fra Oriente e Occidente cristiano e fra Nord e Sud del cristianesimo del vecchio continente, molto probabilmente non ci sarebbero state. E ben difficilmente avrebbero finito per produrre le tragedie immani che ne sortirono. Come colse lo stesso cardinal Martini, che, quasi quarant’anni fa, si spingerà ad avvertire che, dopo il concilio, il tema delle relazioni ebraico-cristiane si fosse fatto decisivo per il futuro della Chiesa: «La posta in gioco non è semplicemente la maggiore o minore continuazione vitale di un dialogo, bensì ‘acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne deriveranno sul piano dottrinale, per la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della Chiesa e addirittura per la sua missione nel mondo d'oggi». In quest’ottica, è evidente che il cosiddetto dialogo fra cristiani ed ebrei abbia sofferto e soffra tutt'ora di una doppia, paralizzante asimmetria. La prima, ammessa da fautori e detrattori, sta nella constatazione che esso è sì necessario per il cristiano, ma non per l'ebreo. Ciò perché, mentre il cristianesimo senza rapporti con l’ebraismo difetta di radici e linfa che gli danno vita, l’ebraismo, in virtù del dono della Torà e dello speciale legame con Dio, non necessita del cristianesimo per fondarsi e autocomprendersi. La seconda nasce dal fatto che questo dialogo deve derivare da un altro dialogo che lo precede, interno alle due fedi. Il dialogo, infatti, non si dà fra cattolici (ossia: cattolicesimo) e rabbini (ossia: ebraismo rabbinico), ma fra cristiani ed ebrei, Se così stanno le cose, occorrerebbe un percorso ecumenico che mettesse a confronto, qui, le diverse confessioni cristiane, e là un dibattito fra ebraismo in terra d'Israele e diaspora, fra ebraismo laico e religioso. Senza tali presupposti, ogni forma di dialogo rischia di essere inconcludente, o di ridursi a dichiarazioni di principio sulla Shoà e sull’antisemitismo, fondate sulla retorica del mai più ma non finalizzate a costruire un cammino comune e condiviso. Tali asimmetrie hanno a lungo pesato sulle sorti del dialogo, e peseranno finché non sarà avviato un processo virtuoso che ne cali verso il basso le istanze: chiese locali, parrocchie, cristiani feriali, comunità ebraiche. Anche perché, ripetiamolo, la separazione fra ebrei e cristiani provenienti dal paganesimo resta - per il cristianesimo tutto - il problema ecumenico cardine. Il problema ecumenico per eccellenza.

Brunetto Salvarani,  Rocca 15 aprile 2021