La logistica che uccide
19-06-2021 - Marco Revelli
Volerelaluna
La
logistica si sta rivelando ogni giorno di più come il vero cuore nero
del capitalismo italiano. Il punto di snodo delle linee strategiche del
modello produttivo dominato dalle grandi piattaforme, quello dove con
maggiore intensità si scaricano i processi di accelerazione in corso e,
di conseguenza, si esasperano i livelli dello sfruttamento e le tensioni
nel rapporto capitale-lavoro.
La morte atroce di Adil Belakhdim davanti
ai cancelli della Lidl di Biandrate ne è una terribile conferma.
Riproduce il profilo della più classica conflittualità sindacale in
tempi d’imbarbarimento dell’agire padronale, quando si arriva a toccare
la nuda vita, e a toglierla, in un contesto nel quale la logica del
profitto mostra di non rispettare più nulla, né leggi dello Stato (di
uno Stato che ha abdicato alla propria sia pur formale imparzialità) né
della decenza.
Un sindacalista che partecipa a un picchetto – lo
strumento principe di ogni vera lotta sindacale -, un crumiro che
trasforma il proprio autocarro in un’arma micidiale contro gli
scioperanti, un corpo steso sotto un telo blu sul piazzale del capannone
di una delle tante società che hanno contribuito a esasperare il
confronto.
Adil era il coordinatore novarese del Si Cobas, sindacato
radicatissimo nel comparto ma spesso ignorato o marginalizzato ai tavoli
negoziali, aveva 37 anni, due figli, e la dignità di chi non abdica ai
propri diritti.
Ora sappiamo che il
presidente del Consiglio Draghi chiede di “fare piena luce”. E ci
domandiamo: “su cosa?” Basterebbe una sia pur fuggevole occhiata ai
fatti, di oggi e delle settimane passate, per capire ciò che sta
accadendo. E le relative cause e responsabilità. Qualche giorno fa a
Tavazzano, vicino a Lodi, l’aggressione a un altro picchetto dei
lavoratori Si Cobas della logistica da parte di energumeni sul modello
tardo ottocentesco dei Pinkerton americani, a terra numerosi lavoratori,
uno in gravi condizioni. E prima ancora, gli scontri a San Giuliano
Milanese, sempre in quel triangolo incandescente della logistica che sta
tra lodigiano, cremonese, piacentino – punto d’incrocio dei grandi assi
autostradali su cui viaggiano, ininterrotti, i flussi di merci oltre
che maxi-focolaio Covid fin dalla prima ondata – dove il nuovo far west
del lavoro mette in scena il proprio mucchio selvaggio.
All’origine di
tutto l’iniziativa della FedEx TNT, gigante della trasportistica
globale: circa 400.000 collaboratori, 160.000 veicoli, 657 aerei, 70
miliardi di dollari di fatturato dopo aver incorporato per 4 miliardi e
mezzo il colosso olandese. Grande beneficiata dalla pandemia: nei 9 mesi
che vanno dal maggio 2020 a febbraio ’21 ha incrementato i propri
ricavi di 10 miliardi di dollari e il risultato operativo di 4. La quale
fin da febbraio ha deciso di chiudere il proprio sito piacentino, dove i
Cobas erano maggioritari, lasciando a casa centinaia di lavoratori e
distribuendo le proprie sedi logistiche nei capannoni lodigiani e
milanesi, davanti ai quali appunto i licenziati hanno inseguito il
proprio lavoro disperso e sono stati accolti a sprangate. E’ un anticipo
di come questi padroni intendono la “ripartenza” e interpretano la fine
del blocco dei licenziamenti.
Draghi, se vuole la luce, farebbe bene ad
accenderla in casa propria. Vedrebbe in quale misura il suo governo ha
favorito questo tipo di interessi non certo orientati al bene comune, e
quanto ne abbia irrobustito l’arroganza.
Se
poi, visto che siamo in tema di illuminazione, si degnasse di accendere
un lumino anche fioco, magari una lampadina a pochi ampères o persino
una candelina, su quell’accrocchio infetto che proprio tra il basso
milanese e il piacentino vede innestarsi le logiche globali di FedEx con
quelle locali di operatori come la Zampieri holding, la quale
ufficialmente si occupa di “trasporto collettame a Roma per conto
terzi”, ma nel caso specifico nelle vicende piacentine di suo mette a
disposizione i capannoni vuoti in cui ospitare le esternalizzazioni
FedEx, interfacciandosi nello stesso tempo con soggetti come la Logis
srl a sua volta interconnessa con la Nks Security & Global Service,
società tutte nelle quali logistica e sorveglianza, trasporto e offerta
di servizi oscillanti tra l’intelligence e il bodyguarding si supportano
e si mescolano a vicenda in una logica tendenzialmente militarizzata
(la si è vista all’opera a Tavazzano)… beh, se Supermario buttasse il
suo occhio ben educato su questa materia maleodorante di sopruso e di
violenza, da caporalato 4.0 e insieme da padroni delle ferriere
ottocentesche, forse un’idea un po’ più chiara di cosa la sua ripresa e
annessa resilienza stiano portando con sé, in termini di tecniche e
pratiche di comando sul lavoro di ultima generazione… Il “Fatto
quotidiano” un primo sguardo l’ha dato, con i limitati mezzi
investigativi che ha a disposizione, e i risultati già inquietano. Se lo
facesse lo Stato…
L’ha avvertita
perfettamente la puzza di bruciato che sale da questi territori
fibrillanti Ezio Mauro, in un bell’editoriale di “Repubblica” in cui
virus e “civiltà del lavoro” venivano messi in connessione nel quadro di
una quasi mortale malattia sociale: “Gli operai-facchini che
picchettano il fantasma del lavoro scomparso rincorrendolo nella sua
mobilità, le squadre dell’azienda che sfondano il blocco, in una sorta
di appalto del conflitto – ha scritto -, sono le due facce dell’ultima
mutazione. Che non a caso si compie nel settore chiave del cambiamento
della domanda e dell’offerta, del costume e delle abitudini, quella
“logistica” del trasporto e consegna di merci e prodotti arrivata oggi a
100 miliardi di euro di fatturato, il 7 per cento del Pil. Con la
pandemia che ha funzionato da acceleratore dei fenomeni, spingendo il
settore in 24 mesi ad un giro d’affari che nelle previsioni si sarebbe
raggiunto soltanto in nove anni”. E aggiungeva: “Non è un caso nemmeno
che l’epicentro di questo cortocircuito finale sia il Piacentino, con i
suoi 8 mila addetti alla logistica in un distretto che ha una distesa di
capannoni pari a 5 milioni di metri quadrati, proprio all’intersezione
tra le due autostrade E35 ed E70: qui durante la prima ondata si era
concentrato anche il virus, viaggiando sui tir per sopravvivere durante
il lockdown, e causando nella prima fase proprio a Piacenza – insieme
con Cremona – il numero di morti più alto d’Italia in rapporto alla
popolazione”. In questo contesto – è la conclusione – dove il vertice
della modernità e il massimo del primitivismo di toccano e si
confondono, il lavoro rischia di andare in pezzi, e così la civiltà che
su di esso si è costruita, i suoi sistemi di mediazione, le sue forme
del riconoscimento e della rappresentanza, le modalità dell’attribuzione
di status e dei diritti, nella regressione a una sorta di stato di
natura dove vale, brutale, solo la legge del più forte. E la democrazia
perde di significato. Altro che resilienza! Forse si dovrebbe parlare di
entropia.
Ma questa storia non parla
solo dell’imbarbarimento padronale. Parla anche di un fallimento storico
del sindacato confederale. Del buco nero che il suo abbandono dei
canoni più propri del sindacalismo classico ha lasciato scoperto. Della
sua incapacità di tutelare le fasce più sfruttate (spesso composte da
lavoratori migranti, i più vulnerabili, quelli per cui basta il ritiro
del permesso di soggiorno per cancellarne l’esistenza).
Della sua
pervicace volontà di tagliare fuori le rappresentanze di base dalle
trattative. Talvolta della sua, reale o apparente, connivenza con una
controparte che non sanno, o non vogliono, contrastare come si dovrebbe.
Non si deve dimenticare che lo sciopero per cui Adil è morto si
svolgeva nel quadro della giornata nazionale di mobilitazione della
logistica proclamata da tutto il sindacalismo di base contro gli episodi
di “squadrismo padronale” ma anche contro il contratto nazionale di
lavoro di recente siglato dai Confederali e considerato, appunto,
collusivo.
Così come fa male, a chi ha conosciuto la CGIL in altri
tempi, sapere che l’intervento della polizia contro i picchetti dei
lavoratori della FedEx TNT di Piacenza che all’inizio di aprile
protestavano contro la chiusura, era stato richiesto da esponenti della
Camera del lavoro locale (un esposto in tal senso era firmato dal
segretario della Filt Cgil piacentina), che infatti nei giorni
successivi era stata circondata in segno di protesta da centinaia di
lavoratori disgustati. Spettacolo che dovrebbe far riflettere i tanti
che ancora in CGIL credono nella propria storia, e che a me
personalmente ha ricordato il luglio del’62 a Torino, quando migliaia di
operai Fiat assediarono la sede della Uil, rea di aver firmato un
contratto separato con Valletta. E fu, quello, l’inizio del poderose
ciclo di riscossa operaia che sarebbe culminato con l’autunno caldo.