giovedì 29 luglio 2021

 

Il ritorno del nazionalismo con la scusa del calcio

PIERO IGNAZl

politologo

Quando si vince una gara, sofferta, tesa fino all'ultimo secondo, la gioia è incontenibile. Erano inevitabili le scorribande notturne per le strade, con cori e abbracci festanti dopo il match Italia-Inghilterra nella finale degli Europei. Lascia invece perplessi la sbornia nazionalista che è tracimata da tanti commenti nei giorni seguenti. La soddisfazione per un risultato prestigioso si è trasfigurata in una visione, sublimata, dell'Italia e addirittura di tutta l’Ue come se si trattasse di una rivincita sulla Brexit. Lo sport non è estraneo alle manipolazioni politiche. Fin dagli albori del Novecento, quando le varie discipline sportive cominciarono a organizzarsi, è stato usato dai governi come veicolo di promozione dell’immagine della nazione. Una immagine di forza e di potenza, ovviamente. Insomma l'Italia è di nuovo in piedi!

Questa esaltazione nazionalista è del tutto fuori luogo. Perché, purtroppo, né la misurata esultanza di Sergio Mattarella, tanto più apprezzata dal pubblico proprio per lo strappo al suo contegno abituale, e nemmeno l'inedita disinvoltura del presidente del Consiglio Mario Draghi nell'incontro con la squadra azzurra, possono ricucire le fratture che attraversano una opinione pubblica tuttora frastornata dalla crisi economico-pandemica.

Lo sport ha soppiantato la religione come oppio dei popoli e i cannoni come fattore di potenza. Ma dal sonno della ragione poi ci si sveglia, e si scopre che una impresa sui campi di calcio o di tennis non ha nulla a che vedere con la vita reale.

Le due grandi vittorie degli ultimi anni nei mondiali nel 1982 e 2006, contrariamente alle elucubrazioni di questi giorni, rimasero confinate su quei prati. E soprattutto, non diedero la stura a esaltazioni proto-sovraniste.

La conquista di Wembley rimane una bella pagina sportiva senza dover cercare significati reconditi e auspicii benigni nelle parate di Gigio Donnarumma.

Domani, 14 luglio