venerdì 1 ottobre 2021

UNA GIUSTIZIA ROVESCIATA

 La giustizia rovesciata

di Francesco Merlo

La Repubblica 1/10/2021

Bum! È la stessa pena di Omar, che a Novi Ligure ammazzò la mamma e il fratellino di Erika. La sentenza del Tribunale di Locri, che condanna a 13 anni e due mesi Mimmo Lucano, il sindaco povero degli immigrati poveri nella Calabria povera, è così crudelmente esagerata da far subito pensare all’iperbole, alla “sparata”, al bum!, appunto.

Qui salta persino la prudenza che magari ipocritamente tutti noi ad ogni lettura di sentenza esibiamo in attesa delle motivazioni. C’è, infatti, il troppo che stroppia, cioè deturpa, da quella parola turpis che, senza andare troppo in fondo, arriva al dunque, e trasforma ogni cosa nel suo contrario, è l’eccesso che rovescia la giustizia quale che sia la colpa di Lucano, quale che sia la virtù di Lucano, quale che sia la verità di Lucano. 

Giorgio Manganelli la chiamava «troppità», una patologia che danneggia chi l’esibisce molto più di chi la subisce. E forse questa sentenza-boomerang a questo servirà: a mostrare tutta la troppità della Giustizia italiana: troppa ideologia, troppa parzialità, troppo corporativismo, troppo protagonismo, troppa irresponsabilità civile, troppa disinvoltura, troppo moralismo, troppa disumanità, troppa iniquità… Una volta caduti i reati di concussione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (assolto e prescritto), l’aritmetica delle truffe attribuite a Lucano qui sembra quella di Platone che stabiliva a quale distanza dal mare peccaminoso bisognasse costruire le città affinché fossero virtuose: tredici anni e due mesi, poco meno del doppio dei sette, chiesti da una Procura già platealmente accanita, per reati che manco i truffatori del secolo, il lupo di Wall Street, o Frank Abagnale Jr. che nel film di Spielberg è Leonardo DiCaprio: Prova a prendermi .

Povero Lucano. L’hanno preso, ma senza contestargli né trovargli un solo euro. E passi che l’accusa, che nel processo è parte, non tenga conto della personalità dell’imputato, ma il tribunale, calcolando la pena, sapeva che Lucano, incensurato, aveva rifiutato le candidature sicure ( in primis quella europea) che gli avrebbero garantito l’immunità e uno stipendio, a lui che non ha i soldi per mangiare. Si trattava, voglio dire, di truffe a fin di bene, come ammise lo stesso procuratore già nell’ottobre del 2018 quando ne chiese l’arresto: «Non possiamo consentire, come Stato italiano, come istituzione della Repubblica, che qualcuno persegua un’idea passando bellamente sopra i principi e sopra le norme». E va bene. Ma dopo l’arresto ai domiciliari ci fu pure la sofferenza del divieto di dimora che stabilì che Lucano, umiliato e punito, potesse andare dappertutto tranne al suo paese, dove comunque, quando gli imposero questa sadica restrizione, non era più sindaco perché era stato sospeso.

Ed ecco che nella troppità della sentenza salta fuori anche il sospetto di una revanche verso i colleghi della Cassazione, che stabilì che gli avevano comminato penose misure immotivate. E non fu per niente usuale quella netta pronunzia della Suprema Corte che entrava nel merito. Era il 2019 e la Cassazione, che è il giudice della Forma, sentì il bisogno di tracciare, in maniera esemplare, i confini delle decisioni capricciose.

Di sicuro già nel 2018 l’arresto estirpò con l’efficienza della chirurgia sociale un modello di integrazione che era vincente anche da un punto di vista economico, visto che con i 35 euro per immigrato, che allora versava lo Stato, a Riace non compravano panini da dare in pasto ai disperati rinchiusi in qualche palazzo sbrecciato di periferia, ma creavano lavoro. «Non hanno condannato me» mi dice adesso Mimmo Lucano «ma l’idea di una forma di vita alternativa, in un villaggio rurale morente». Ancora nel 2020 quest’idea di Lucano fu esposta al Moma di New York, e non per solidarietà internazionale, ma come esempio di vita di campagna spopolata, insieme alle new town cinesi, alle fattorie robotizzate dell’Olanda e del Canada, alle coltivazioni con i droni nell’Africa subsahariana.

Si può imbrogliare non cercando di arricchirsi? Che significa truffare, ma non per fare soldi? Significa pasticciare con gli atti amministrativi, procedere in disordine. E dunque così, per dire, i soldi del frantoio andavano agli artigiani del vetro e quelli del vetro venivano girati al laboratorio degli aquiloni di Herat, e il ricamo era sovvenzionato con i fondi assegnati alla carta e quelli della carta erano i soldi dei vasi di Kabul… Non cambia il totale, ma solo l’ordine dei fattori mescolati e sovrapposti. Perché è così Lucano, è il leader, rustico e disordinato ma lucido, che meglio di tutti impersona l’accoglienza e la pietà nella Calabria aspra e dirupata. E lasciamo perdere Robin Hood, per carità.

In questo modo ogni fattore disordinato può diventare una truffa: una carta d’identità e l’asilo nido multietnico, una scuola e i presidii medici, il ristorante e le borse-lavoro. E Riace era persino albergo-diffuso per accogliere il turismo equo solidale: in una casa aveva vissuto Wim Wenders, in un’altra Fiorello. Ebbene, invece di riprodurlo nelle terre abbandonate del Sud, nelle campagne desertificate della Sicilia, questo modello, questo povero castello dell’accoglienza e dell’integrazione nel mondo sovranista del respingimento e della disintegrazione, è stato spazzato via senza le ruspe di Salvini e senza fomentare le guerre tra i poveri di Giorgia Meloni, ma con il codice penale applicato con accanimento talebano fino al bum dei tredici anni e due mesi di ieri.

Andava comunque punito, Mimmo Lucano? Non è compito nostro stabilire se bisognasse condannarlo o assolverlo. Ma abusare del potere discrezionale che la legge concede al giudice nel calcolo della pena è qui mostruoso. Così venivano puniti nel ’500 gli Ugonotti, e nel ’600 i valdesi di Torre Pellice, così venivano massacrati gli eretici.