giovedì 9 giugno 2022

LAVORO PRECARIO

 Mai così precari da 45 anni e, parole a parte, non si fa nulla per cambiare


Roberto Ciccarelli
Il manifesto
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«Tre milioni 166 mila di contratti a termine, il valore più alto dal 1977» si è letto nei consueti dati provvisori sull’occupazione e sulla disoccupazione pubblicati ieri l’Istat anche per il mese di aprile 2022. Era lo stesso a marzo e, più o meno, anche prima. Questo è come il giorno della marmotta: le stime sul precariato nel perimetro del lavoro dipendente si ripetono sempre uguali di mese in mese, di anno in anno. E così si ripete allo stesso modo la falsa indignazione di quelli che stanno nel Palazzo. In questa commedia organizzata risuonano le note del disco, già sentito. La canzone recita «C’è troppo precariato/è uno scandalo/Ma come è possibile/Sono dati che ci chiedono di riflettere e intervenire per ricercare». Quest’ultima frase, per la cronaca, ieri l’ha pronunciata il ministro del lavoro Andrea Orlando a margine dell’iniziativa della Uil sui salari e sulla contrattazione. E, mentre il ministro rifletteva, il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri, non nuovo ad uscite efficaci, ha suggerito quella che potrebbe essere una strada ma che nessuno, in questa legislatura, come probabilmente nella prossima, prenderà mai.
A meno che non ci sia un sommovimento che cambi le carte in tavola, beninteso.
Vi ricordate il Covid? Per il rapporto Bes-Istat non sta andando tutto bene
«Ancora una volta si registra un incremento eccezionale dei contratti a termine – ha detto – L’opzione per noi resta quella spagnola, in cui si eliminano i contratti a tempo determinato lasciando solo due tipologie: per sostituzione dei lavoratori e per carichi produttivi». Questa sarebbe, a suo avviso, una «flessibilità contrattata» contraria alla «flessibilità selvaggia» in vigore nel paese del Jobs Act del Pd e di Renzi. Sembra un ritorno al futuro, o al passato, degli anni Novanta del secolo scorso. Poco conta il senso del tempo quando si vive nel giorno della marmotta. Comunque sia, anche allora si discuteva, del tutto inutilmente, di una «flexsecurity». Parole scritte sull’acqua. Quell’espressione fu usata per fare esattamente il contrario. Arrivò la «flessibilità», cioè il precariato, e nessuna «sicurezza». Era una presa in giro. E infatti da allora si parla di «flexinsecurity». Massima precarietà, nessuna sicurezza sociale. Trent’anni dopo, mentre il Covid continua, e con una guerra in corso in Europa, stiamo allo stesso punto. Ma peggio. Con i salari al palo, mentre la Banca d’Italia dice: avrete aumenti una tantum, ovviamente per chi ha un contratto, ma i salari resteranno quelli che sono. Fermi agli anni Novanta, quando ci si baloccava con le teorie neoliberali del mercato del lavoro. Parole che producono disincanto, indifferenza, ostilità muta e inespressa.
Una dignità molto precaria, l’equilibrismo tra imprese e lavoratori in un decreto
La crescita dei contratti a termine è il motore della crescita occupazionale registrata durante l’anno, dopo la famosa «ripresa»: + 670 mila, la maggior parte precari. Non solo. Negli ultimi dieci anni ci sono 2,7 milioni occupati over 50 in più. «Segno – ha detto Fulvio Fammoni, presidente Fondazione Di Vittorio Cgil, – dell’invecchiamento dell’occupazione». Mentre lavoratori autonomi e la fascia degli occupati 35-49enni arretrano. E i rimedi? Si somministrano cure omeopatiche che hanno già dimostrato di essere insufficienti. I Cinque Stelle sono tornati alla carica con la richiesta di ripristinare il «loro» decreto dignità che avrebbe dovuto ridurre i contratti a termine. Prima del Covid ebbe tutt’al più effetti «neutrali» sul mercato del lavoro. Ora è sospeso da due anni. Forza Italia che ha rispolverato il ritornello per cui «i decreti non creano lavoro». Più che altro lo riorganizzano in base alle esigenze del modo di produzione postfordista basato su esternalizzazioni, subappalti e lavoro povero, intermittente o in nero. Per uscire dal giorno della marmotta bisognerebbe ripartire dalle cause del sistema e non registrare gli effetti.