IL COMMENTO DELLA
SETTIMANA:
Le destre a cavallo della
crisi
Mentre nel cuore dell’Europa infuriava la guerra, l’inflazione mangiava
salari e pensioni, e la pandemia raggiungeva, in piena estate, il massimo dei
contagi, in Italia, un febbrone da fine legislatura provocava la crisi del
governo di unità nazionale.
Forse le cronache di questa tribolata stagione racconteranno così l’avvitamento
politico-istituzionale che da ieri coinvolge le forze politiche chiamate,
sedici mesi fa, dal presidente Mattarella a unirsi per il bene comune: Un
matrimonio forzato, dopo aver mandato a casa il governo giallorosso, appena
seduto sulla montagna dei duecento miliardi europei, concessi a una Italia
devastata da decine di migliaia di morti, vittime del virus.
A essere sinceri nemmeno Lenin avrebbe saputo evitare il marasma pentastellato
in cui è finito Giuseppe Conte, capo di un Movimento di radicale opposizione,
azzoppato da una scissione ben orchestrata e attanagliato dallo spettro di un
bagno elettorale, l’ennesimo, quando si apriranno le urne delle prossime
elezioni politiche.
Naturalmente una mano alla rottura politica l’ha data anche il presidente del
consiglio, quel deus ex-machina chiamato dal Capo dello Stato a lasciare il
buen retiro per commissariare il paese. “La maggioranza che ha sostenuto il
governo non c’è più. E’ venuto meno il patto di fiducia. Salirò al Quirinale a
rassegnare le mie dimissioni”.
Draghi nulla ha concesso alle contorsioni politiche del suo predecessore,
lasciandolo impigliato nella formula, bizantina e disperata, coniata dai
5Stelle: “Non votiamo la fiducia ma non usciamo dal governo”. Senza mettere nel
conto il particolare che, intanto, dal governo sarebbe uscito Draghi (come
raccontava ieri la vignetta di Giannelli sul Corriere della sera).
Alla fine Conte è rimasto solo, con l’alleato, il Pd di Letta, che gli volta le
spalle, anche comprensibilmente visto che con lo smarcamento dei 5Stelle sul
fronte dell’agenda sociale, resta l’unico partito filogovernativo a oltranza,
insieme all’informe compagnia centrista.
Se il campo largo del centrosinistra tende a restringersi, tutta la destra
festeggia vedendo profilarsi all’orizzonte dell’autunno il traguardo di una
vittoria elettorale a portata di mano.
Non è difficile immaginare Salvini, Meloni e Berlusconi tornare in piazza
cavalcando le sofferenze dei più deboli, decisi a sventolare le bandiere della
lotta contro il reddito di cittadinanza, il salario minimo, la riconversione
ecologica, aizzando il partito dell’evasione fiscale. E naturalmente già pronti
a farsi paladini di una politica estera intrisa di nazionalismo e di amore
ricambiato per l’autocrazia putinista.
Del resto che il governo di unità nazionale, calato dall’alto del gotha
economico-finanziario, avrebbe fatto male soprattutto alle forze della sinistra
era abbastanza scontato.
L’inasprimento delle povertà, così ferocemente fotografato dall’Istat, in
mancanza di riforme strutturali e in presenza di un massiccio astensionismo
delle periferie sociali, non promette niente di buono. Chi deve scegliere se
mangiare o riscaldarsi non sente ragioni.
Draghi ieri, nel salutare i suoi ministri dopo le dimissioni (respinte in
serata da Mattarella), li esortava e essere orgogliosi dei risultati raggiunti.
Noi non ne vediamo di così rilevanti, né sul piano di una riforma fiscale o del
welfare, né su quello dell’occupazione o della scuola.
Sarebbe bastato vedere in campo la metà delle misure promosse dal governo di
Sanchez in Spagna (tasse per le banche e per le imprese energetiche, trasporti
pubblici gratis, tanto per citare le ultime), subito accusato di populismo
dalle destre del suo paese. Un populismo che ci piace.
Norma
Rangeri (da “Il Manifesto” del 18 luglio 2022)