Poveri al lavoro, pensioni da fame. La bomba sociale è innescata
Sono oltre 4,3 milioni i lavoratori dipendenti che percepiscono meno di 9 euro lordi l’ora e quasi un lavoratore su tre guadagna meno di mille euro al mese, considerando anche i part-time. Per il presidente dell’Inps Pasquale Tridico che ieri ha presentato la XXI relazione alla Camera alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, guadagnano una cifra mensile lorda inferiore al massimale di 780 euro del cosiddetto «reddito di cittadinanza», stabilito sulla base del reddito mediano. Sembra che percepiscano meno di 5 mila euro all’anno.
La povertà lavorativa è più marcata in Italia
che negli altri Stati europei. Secondo Eurostat, nel 2019, l’11,8% dei
lavoratori era povero rispetto alla una media europea del 9,2%. Tre anni dopo
la situazione è peggiorata. I «lavoratori poveri» sono raddoppiati negli ultimi
quindici anni, tra il 2005 e il 2021, corrispondenti alle due grandi crisi che
hanno devastato il capitalismo globale: la crisi dei mutui subprime e dei
debiti sovrani (2007-2008) e quella della pandemia alla quale si è agganciata
quella attuale.
Tridico ha prefigurato il loro percorso nei
prossimi trent’anni. Se riuscissero a versare i contributi, e non è affatto
detto, e se arrivassero a 65 anni in queste condizioni, allora avrebbero una pensione
di circa 750 euro, superiore al corrispettivo della pensione minima attuale
pari a 524 euro al mese. Questa è già la realtà delle pensioni italiane, la
maggior parte delle quali sono inferiori a mille euro al mese. Tra un paio di
decenni ci saranno pensionati ancora più poveri. La simulazione è ottimistica.
Per ora riguarda solo i nati tra il 1965 e il 1980. Per chi è nato tra il 1981
e il 2000 andrà peggio.
«Chi è povero lavorativamente oggi sarà un
povero pensionisticamente domani» ha detto Tridico. Le donne sono le più
penalizzate. «Sono state le più penalizzate – ha aggiunto il presidente
dell’Inps – perché hanno avuto un allungamento della vita lavorativa, per
allinearla a quella degli uomini, e stanno andando in pensione più tardi di
quanto si aspettassero al momento in cui sono entrate nel mercato».
Non va dimenticato che, tra il 2005 e il 2021,
la povertà assoluta è triplicata, arrivando agli attuali 5,6 milioni (dati
Inps, Il Manifesto 9 luglio). I due fenomeni compongono la
parte emersa di un iceberg che naviga sott’acqua. E presto emergerà, e non solo
per il riscaldamento climatico. Ma per gli effetti del combinato disposto delle
riforme neoliberali del mercato del lavoro e delle pensioni iniziate dalla metà
degli anni Novanta, in Italia e non solo.
La decrescita salariale deriva dalla
«parcellizzazione della prestazione lavorativa, anche per effetto della
eccessiva flessibilizzazione introdotta dalle riforme sul mercato del lavoro».
Non va inoltre trascurato l’impatto della denatalità sul sistema previdenziale.
«L’onda dei baby boomers sta arrivando alla pensione – ha detto Tridico – La
base contributiva si sta restringendo. Quand’anche le politiche di contrasto
alla denatalità risultassero efficaci, i benefici di nuovi contribuenti che
entrano nel mercato del lavoro si verificheranno tra 20-25 anni».
Allungamento dell’età pensionabile in cambio
della sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale; precarizzazione dei
rapporti di lavoro fino al punto che oggi il tasso di occupazione (60%) cresce
grazie ai contratti di breve e brevissimo termine; blocco sostanziale dei
salari da trent’anni. Lo schema è stato accompagnato dall’abbandono di ogni
politica industriale a favore delle esternalizzazioni, e dalla crescita di
un’economia dei servizi poveri (turismo, ristorazione, digitali e altro).
Questa situazione ha allargato la forbice
delle differenze di reddito all’interno del lavoro dipendente. I lavoratori che
hanno lavorato di continuo negli ultimi 15 anni hanno salvaguardato la loro
posizione: tra questi l’85% ha avuto una crescita relativa del reddito. Ma è
solo l’1% dei lavoratori che concentra il 6,4% del reddito totale percepito dal
lavoro dipendente. Tra tutti gli altri occupati, la metà più povera ha perso
reddito tra il 2005 e 2020. L’indice Gini che calcola le diseguaglianze è
salito nel 2021 a 46 dal 44 del 2019. Le diseguaglianze, dunque, non sono solo
tra «ricchi» e «poveri», ma all’interno del rapporto di lavoro precario, e non.
Trent’anni di trasformazione postfordista
hanno indebolito il contratto nazionale di lavoro, sia per quanto riguarda la
tutela del salario (anche chi ha un contratto guadagna pochissimo), sia per la
rappresentatività. Per Tridico, ci sono 1.011 contratti: «Troppi, e spesso non
rappresentativi». È il problema dei «contratti pirata», ai quali non sembra
esserci una soluzione. «Se si introducesse un salario minimo, i profili
contributivi si alzerebbero significativamente, in media del 10%» sostiene
Tridico.
Prospettiva difficile mentre l’inflazione, che
non dipende da una crescita dei salari, è usata per mantenerli bassi. È in
questa direzione che va la modesta prospettiva di rivalutazione prospettata in
Italia. Dopo la repressione salariale, e in assenza di un significativo ciclo
di lotta di classe, non saranno i bonus degli ultimi governi, compreso quello
di Draghi, a cambiare la situazione. La controrivoluzione neoliberale lascia in
eredità una bomba sociale. Nessuno intende disinnescarla.
Roberto Ciccarelli (“Il
Manifesto” 12 luglio)