domenica 7 agosto 2022

INTRIGHI, DEFEZIONI E TRADIMENTI

Dietro le purghe di Zelensky

la trama di un golpe incompiuto

ROMA — Il lungo rosario di licenziamenti, sospensioni e arresti che, dal 24 febbraio, ha sforbiciato i vertici degli apparati statali ucraini disegna la trama di un golpe incompiuto e, insieme, l’ordito di un radicale riassetto del potere. Sempre più saldo nelle mani del presidente Zelensky, sempre meno accessibile ai suoi oppositori politici.

A precipitare nello sconcerto l’opinione pubblica, ieri, è stato l’allontanamento improvviso di Ivan Bakanov e di Iryna Venediktova. Non due nomi qualsiasi: capo dei servizi segreti (Sbu), il primo; procuratrice generale che indaga sui crimini di guerra russi, in sostanza il magistrato più importante dell’Ucraina, la seconda. «Li abbiamo solo sospesi, per fare accertamenti sul loro operato», è la spiegazione del governo. In effetti, sessanta dipendenti della procura generale e dello Sbu sono rimasti nelle zone occupate dai russi e i loro fascicoli sono nella pila dei 651 casi aperti contro pubblici ufficiali ritenuti collaborazionisti. Bakanov, che faceva parte di Kvartal 95, la società di produzione di Zelensky, paga per non aver visto arrivare il complotto: alla vigilia dell’invasione, una parte dello Stato si è accordata segretamente con l’intelligence russa, e Bakanov non ne sapeva niente.

Nelle stesse ore in cui veniva sospeso (l’incarico, pro tempore, è stato dato al vice, Vasyl Malyuk), è finito in carcere un suo amico, Oleg Kulinich, fino al marzo 2022 responsabile Sbu per la Crimea, la penisola da cui è partita indisturbata la colonna di carri armati che si è presa Kherson in poche ore, senza neanche il fastidio di dover sparare un colpo. La mancata difesa di Kherson, unica città conquistata a ovest del fiume Dnepr e punto strategico per la Crimea (da lì arrivano le riserve idriche), è un tema sensibile. Perché non sono stati fatti brillare i ponti per tagliare l’avanzata nemica? Come hanno fatto i soldati di Mosca a evitare i campi minati? Qualche interrogativo lo solleva anche la storia di Kharkiv, la seconda città del Paese, dove nelle prime ore del conflitto una gran fetta dell’esercito si è rifiutata di combattere, lasciando alle forze di difesa territoriale l’onere improbo di arginare l’ondata russa.

C’era un accordo segreto, il governo di Kiev ne è ormai certo e la sfilza di epurazioni ne è la prova. Il Cremlino aveva avuto rassicurazioni da una parte degli apparati ucraini — ancora pieni di funzionari nominati dal vecchio premier filorusso Yanukovich — che non ci sarebbe stata vera resistenza e che i blindati avrebbero sfilato a piazza Maidan al massimo in tre giorni. A patto che Zelensky fuggisse dalla capitale. Il presidente, però, non è salito sull’elicottero degli americani, è rimasto al suo posto, e si è vendicato su chi, a suo parere, aveva tradito. Nell’ordine: il generale Serhii Kryvoruchka (capo Sbu a Kherson, gli sono stati tolti i gradi), il suo assistente Igor Sadokin (arrestato a marzo), Gennadii Lahutia (capo dell’amministrazione militare di Kherson, rimosso il 28 giugno), Andriy Naumov (capo della sicurezza interna dello Sbu, arrestato in Serbia), Roman Dudin (capo Sbu di Kharkiv, arrestato il 29 maggio).

Al repulisti, Zelensky ha affiancato però un’operazione di rafforzamento politico. Così va letto lo stop della procuratrice Venediktova, da lei considerato illegale. «Al di là del motivo ufficiale», ragiona con Repubblica Gennady Maksak, analista del think tank Prizm di Kiev, «avevano dubbi sulla sua fedeltà all’ufficio presidenziale e alla lotta di questo contro l’ex presidente Poroshenko». Venediktova in passato non ha voluto firmare delle carte sull’inchiesta per tradimento a carico di Poroshenko, lasciando l’incombenza al suo vice, Oleksiy Symonenko. Symonenko, in seguito, ha anche fatto trasferire allo Sbu, di fatto insabbiandola, un’indagine per corruzione su Oleg Tatarov, uno degli uomini più vicini a Zelensky nonché vice dell’Ufficio presidenziale. Proprio quel Symonenko che, oggi, è stato messo al posto di Venediktova.

Fabio Tonacci, La Repubblica 19 luglio