di ENZO BIANCHI
Ultimamente mi ha sorpreso uno spot pubblicitario che in modo martellante mostra una scena: in un supermercato una bambina in estasi sta davanti a uno scaffale di prodotti dolciari… poi un attimo di silenzio in attesa della voce della mamma che chiede: «E quale vorresti?». E la bambina, in un grido gioioso: «Tutti!». Ho subito percepito l’insensatezza di un messaggio del genere. C’è un desiderio e alla domanda che chiede di scegliere, la risposta è: «Tutti!». Tutto e subito.
Lo dice l’istinto, lo fa suo il desiderio e lo esprime.
L’istinto è una forza dominante, è un sentimento personale, intimo, che scaturisce dalle profondità animali della persona, e che dunque va assunto, disciplinato, educato. Altrimenti lo si enfatizza, diventa brama di “tutto e subito”, e non conosce limite: l’istinto diventa così cupidigia, brama, voracità di possesso e amore del denaro. Chi non riesce a dominarlo viene trascinato a possedere, consumare, fare suo ciò che desidera e non ha, e per averlo ricorre anche alla violenza. L’ebrezza del “tutto” fa sognare l’impossibile, esclude ogni possibilità di condivisione, non riconosce la presenza dell’altro con lo stesso desidero verso il medesimo oggetto.
Chi vuole tutto vuole realizzare il suo desiderio senza tener conto degli altri, del prossimo, del limite di ogni azione umana. L’oggetto o la persona desiderati con cupidigia emergono come forze dominanti fino a produrre, in chi desidera, l’alienazione. Comprendiamo allora l’assillante invettiva dei profeti di Israele contro la cupidigia o il desiderio del tutto, perché per loro nella cupidigia sta il non riconoscimento dell’altro e del proprio limite, sta la radice dell’ingiustizia e di ogni violenza.
Tra le dieci parole donate da Dio a Israele sul Sinai, “non desiderare” (chamad, desiderio che si fa azione) ricorre due volte: nei rapporti con le cose materiali e con le persone.
La patologia del desiderio che vuole tutto non riguarda solo la vita personale, ma anche quella nella società. Il premio Nobel per l’economia Stiglitz ha pubblicato un libro sulla crisi economica intitolato, nell’edizione francese, Le triomphe de la cupidité. Certo, la dimensione lucrativa del lavoro umano non può essere eliminata, ma l’eccesso del guadagno e dell’interesse, il non mettere né darsi limiti ha portato a una crisi che ha prodotto sofferenza per popoli interi. La voracità che si è scatenata viene legittimata e la cultura della cupidigia ha fatto scaturire una cultura individualista, incapace di pensare un orizzonte comune.
Nell’educazione dei giovani sarebbe opportuno non offrire “tutto”, ma insegnare a ordinare il desiderio e a scegliere, tenendo conto del bene comune, nella consapevolezza che bisogna porsi un limite perché facciamo parte di un’unica umanità. Volere tutto è il contrassegno di una convivenza in cui l’altro è negato e ne va eliminata la presenza.
Non possiamo volere «Tutto!», ma possiamo volere solo accettando di rinunciare al tutto.
La Repubblica 8 agosto