Rapper violenti, l'analisi di Amir Issaa: "Questi sono veri criminali, un modello per i ragazzi"
di Carlo Moretti
La repubblica 17/8
La repubblica 17/8
Amir Issaa è il primo rapper italiano di seconda generazione ad aver avuto successo nel nostro Paese, il suo album di debutto Uomo di prestigio è del 2005. E’ cresciuto nel quartiere periferico di Torpignattara, a Roma, da padre egiziano e mamma italiana. Oggi, a 43 anni, al rap ha affiancato la passione dello studioso del fenomeno hip hop: tiene conferenze ai ragazzi nelle scuole e da questa sua esperienza è nato il libro Educazione Rap.
Da rapper come sta vivendo le notizie sul mondo del rap?
“Non mi stupiscono. Il gangsta rap non è una cosa nuova. Quando nasce nelle periferie degradate il rap è figlio del disagio giovanile e familiare e diventa una valvola di sfogo”.
I rapper però oggi non raccontano solo la violenza, la fanno.
“Ci si stupisce perché in Italia fino a qualche anno fa le persone che facevano il rap erano italiani e bianchi con famiglie nella media tranquille. Raccontavano la loro vita e al massimo era vita di periferia, anche se si atteggiavano come i rapper americani. Oggi in Italia il rap è esattamente la stessa cosa che c’è negli Usa, in Francia e in Inghilterra. Ma è la colonna sonora di ciò che succede, non la causa della criminalità”.
Fino a qualche anno fa i rapper raccontavano la violenza spiegando che si trattava di una metafora.
"Perché fino a qualche anno fa non c’erano rapper che erano stati in carcere. Oggi già nei primi brani raccontano di quando erano nel carcere minorile, una cosa totalmente nuova che non si può slegare dall’evoluzione della società italiana dovuta all’immigrazione. Io nel 2005 ero una novità mentre oggi la classifica rap di Spotify è dominata da rapper che hanno origini straniere e in particolare nordafricane. Prima i rapper italiani giocavano a fare i rapper di strada, oggi ti raccontano quella realtà dopo averla vissuta. E se non fossero rapper farebbero esattamente la stessa cosa".
Qualche anno fa arrivare al successo significava cambiare vita, ora sembrano inseguire il modello del delinquente che appare vincente.
"Non si tratta più di rapper che giocano a fare i criminali, qualcuno di loro è proprio un delinquente, a vedere la loro fedina penale ci si troverebbe davanti a una lunga lista di reati. Sono delinquenti che fanno anche il rap, un linguaggio perfettamente in linea con il loro stile di vita. A quelli bravi, a cui arride il successo, quella vita dà ulteriore credibilità. L’esatto contrario di qualche rapper italiano che parlava di reati ma era figlio di un avvocato, di un regista, di un grande pubblicitario. E ora però non lo segue più nessuno".
Per i ragazzini, i rapper delinquenti diventano dunque simboli di successo.
“I ragazzini di 13 o 14 anni sono affascinati. Quando vado nelle scuole a parlare di rap, i più piccoli mi parlano proprio di questi rapper, non ascoltano certo gli Assalti Frontali o i Public Enemy. Ma sono gli stessi modelli proposti dal cinema, dalle serie tv o dai videogame dove vince il più cattivo, l’infame. Per evitare il rischio dell’emulazione ci vuole una nuova educazione all’ascolto, anche in famiglia oltre che a scuola".
Suo padre è stato in carcere per droga, cosa l’ha aiutata a non seguire quella strada?
"Dopo aver visto mio padre tagliare l’eroina e poi, tossicodipendente, finire in carcere, ho deciso che non avrei fatto la stessa vita: ho raccontato la mia via d’uscita, un messaggio positivo, oggi invece inseguono il nichilismo. Mi ha aiutato l’esempio positivo di mia madre, mi ha dato forza, equilibrio e valori. Ai rapper di oggi manca proprio questo esempio, sono tutti cresciuti senza padre, per strada, a inseguire i sogni materialistici che propone questa società".