venerdì 7 ottobre 2022

 

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Per collocare i racconti di miracolo nella 'cultura' giudaica e greco-romana del tempo potrà essere utile il fascicolo di ETIENNE CHARPENTIER (l miracoli del Vangelo, Gribaudi, Torino 1978). Si veda ancora lo studio di ROMANO PENNA in Testimonium Christi (Paideia, Brescia 1985). RINALDO FABRIS (Gesù di Nazareth, Cittadella Editrice, Assisi 1983) si dimostra più interessato ad approfondire il significato dei miracoli di Gesù.

Alcuni studi comparsi in questi anni conservano piena validità e, nella loro diversità, possono offrirci stimoli non indifferenti. Più sintetico è il contributo di H. KUNG, Essere cristiani, Mondadori, Milano 1976, pagg. 247-259. Più analitica la ricerca di E. SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia di un vivente. Queriniana, Brescia 1976, da pag. 181.

 

 

 

 

Pagine stupende, per semplicità espressiva e per profondità esegetica e teologica, si possono leggere in BRUNO CORSANI, I miracoli di Gesù nel quarto Vangelo, Paideia, Brescia 1983, specialmente da pag. 84 a pag. 97. Da questo volume prendiamo una lunga citazione: «Sembra certo che Marco, se non si è trovato di fronte una cristologia dell’uomo divino, abbia visto il pericolo che da quei racconti si potesse arrivare a una cristologia di quel genere; perciò assume verso quell’impostazione un atteggiamento apertamente critico, contrapponendovi la cristologia dell'abbassamento del Figlio dell'uomo. Il Cristo di Marco non è un Cristo che si accredita mediante opere potenti (Act. 2,22) bensì il Figlio dell'uomo che è venuto “per servire e per dare la vita sua come prezzo di riscatto per molti" (Mc 10,45). Tutta la seconda metà di Marco, dalla «confessione di Pietro» (8,27-29) in avanti, è dominata dal tema della passione del Figlio dell'uomo. Non solo l'ultima settimana di Gesù a Gerusalemme occupa in Marco un posto sproporzionato all'ampiezza del libro (capp. 11-15): essa si proietta all'indietro fino a metà del Vangelo (fino all'episodio di Cesarea di Filippo, 8,27ss.) con i tre preannunzi della passione, ciascuno dei quali è una passione in nuce (8,31; 9,31; 10,33-34). Giustamente si può applicare a Marco la definizione che Martin Kähler dava del genere letterario “evangelico": un racconto della passione con ampia introduzione.

 

A questa cristologia di Marco, centrata sulla croce, corrisponde la sua concezione del discepolato. Il discepolo non è chiamato a seguire Cristo sulla via della gloria, imponendosi all'attenzione e al rispetto degli uomini mediante opere potenti che diano evidenza della presenza del divino in lui. Questa era l'idea del discepolato che si facevano gli “pseudoapostoli" avversari di Paolo a Corinto. La via del discepolo che Marco mette in risalto nel suo Vangelo è quella che consiste nel seguire Gesù sulla via del servizio e nel prendere la propria croce.

Il contrasto fra il discepolato prospettato da Marco e quello che intendevano una parte dei credenti del suo tempo si riflette probabilmente nel contrasto fra l’insegnamento di Gesù e la comprensione dei discepoli, contrasto esasperato da Marco nelle contrapposizioni che circondano i tre annunzi della passione:

a) alla fine del cap. 8, tra il primo annunzio della passione (8,31) e la descrizione del discepolato come un prendere la propria croce (8,34-38) sta la ribellione di Pietro all'annunzio del messia sofferente e il rimprovero di Gesù a Pietro: “Va' via da me Satana!";

b) alla fine del cap. 9 il secondo annunzio della passione è seguito da una conversazione dei discepoli fra loro: al v. 34 si precisa che “per via avevano questionato fra loro chi fosse il maggiore". Nello spirito della cristologia della croce questa questione non può avere altra risposta che quella indicata al v. 35: “Se uno vuol essere il primo, dovrà essere l'ultimo di tutti e il servitore di tutti”;

c) alla fine del cap. 10, il terzo annunzio della passione è seguito dalla domanda di Giacomo e Giovanni: "Concedici di sedere uno alla tua destra e l'altro alla tua sinistra nella tua gloria" (10,37). Il contrasto con le parole del v. 34 non potrebbe essere più stridente: lo metteranno nelle mani dei pagani, e (questi) lo scherniranno e gli sputeranno addosso e lo flagelleranno e l'uccideranno...“. Gesù risponde (v. 38): “Voi non sapete quello che chiedete".

 

Marco ha dunque una cristologia e una concezione del “seguire Gesù" molto diversa dall'idea gloriosa che se ne facevano i discepoli (o che egli esagera nei discepoli per criticare quella di certi cristiani del suo tempo). Molto diversa anche dall’idea gloriosa dell'uomo divino suggerita da molti racconti di miracolo riportati nel suo Vangelo. Marco critica anche questa idea trionfalistica dello scopo dei miracoli, e il suo atteggiamento critico - come nel caso del discepolato - traspare dal suo lavoro editoriale.

a) Anzitutto Marco ridimensiona l'aspetto “glorioso” dei racconti di miracolo subordinandoli al quadro d'assieme del suo Vangelo, quadro interamente proiettato verso la passione di Gesù. Collocando la maggior parte dei miracoli nella prima parte della sua opera, distoglie (dal cap. 8 in poi) l'attenzione del lettore dalla loro testimonianza, per concentrarla su quella della sofferenza del Figlio dell'uomo.

b) Il divieto di divulgare l'avvenuta guarigione, rivolto da Gesù al lebbroso (1 ,43-44a), a Giairo e a sua moglie (5,43), al sordomuto della Decapoli e ai suoi amici (7,36) e probabilmente anche al cieco di Betsaida (8,26), relativizza l'importanza dei miracoli quanto al loro valore dimostrativo-apologetico.

c) Questa conclusione si rafforza se pensiamo a tutte le volte in cui Marco dice che i discepoli “non capiscono": dopo che Gesù ha acquetato la tempesta (4,40-41), dopo la prima moltiplicazione dei pani (6,52) e dopo la seconda (8,17-21).

d) L'importanza dei miracoli viene anche relativizzata perché Marco la subordina all'insegnamento: la prima serie di miracoli contenuta in 4,35ss. viene dopo l'insegnamento in parabole di 4,1-34 che occupa il posto d'onore (c'è un parallelo interessante in Matteo, che colloca una serie di miracoli ai capp. 9-10 dopo il Sermone sulla montagna dei capp. 5-7). Tipica a questo riguardo è la struttura redazionale della guarigione dell’indemoniato di Capernaum: in 1,21 Gesù insegna nella sinagoga e la gente stupisce perché li ammaestrava come avendo autorità (v. 22); a questo punto è narrato l'esorcismo, seguito da questo commento (v. 27): "E tutti sbigottirono e si domandavano tra loro: Che cos'è mai questo? È una dottrina nuova! Egli comanda con autorità perfino agli spiriti immondi". Altri esempi: l'insegnamento sul perdono dei peccati precede la guarigione del paralitico di Capernaum (2,1ss.), quello sul sabato precede la guarigione dell'uomo dalla mano secca (2,27-28). Anche la moltiplicazione dei pani è preceduta dall'insegnamento (6,34).

e) Si può osservare anche l’accentuazione della fede nel contesto dei racconti di miracolo. Esso esclude l'automatismo della virtù sanatrice di Gesù. Ricordiamo specialmente il caso dell'epilettico (9,19.23-24), di Bartimeo (10,52), della donna dal flusso di sangue (5,34). In questo caso la menzione della fede riequilibra il racconto, che il v. 28 faceva pendere dal lato del potere magico.

Prima di ritornare a Giovanni, ricapitoliamo le osservazioni fatte sui miracoli di Marco: varietà di strutture e di scopi nella tradizione dei miracoli, e impiego di artifici redazionali diversi, da parte dell'evangelista, per relativizzare il peso di quei racconti e soprattutto per orientare i lettori verso la cristologia della croce piuttosto che verso la cristologia gloriosa dell'uomo divino».

Non meno interessanti le osservazioni che Corsani propone sui miracoli nell’evangelo secondo Giovanni: «Diciamo subito che Giovanni, come Marco, fa un uso critico dei racconti di miracolo che erano a sua disposizione... L'evangelista usa la parola ‘semeion’, ‘segno’, solo per criticare l'interpretazione teologico-apologetica del miracolo presupposta dalla fonte. Il passo più tipico è 4,48: “Se non vedete segni e miracoli, voi non credete". Per l'evangelista, la vera fede riposa soltanto sulle parole di Gesù...» (pag. 92). Per questo al desiderio di vedere un segno evidente (Gv 6, 30) Gesù oppone semplicemente la sua persona: lui, Gesù, è il segno della volontà salvifica di Dio. La fiducia nei segni ne risulta ridimensionata: «Per la fonte dei segni c'è un rapporto diretto fra i miracoli e la gloria del messia; per l'evangelista invece la gloria di Gesù è in rapporto diretto con la sua ora, il suo ritorno al Padre, che è poi l'ora della croce» (ivi, pag. 93). Giovanni era, dunque, insoddisfatto della ‘fonte dei segni’ perché essa portava con sé il rischio dell'apologetica, di usare lo straordinario e lo spettacolare come argomento probante e persuasivo della messianicità di Gesù. Su questo punto sembra che si possa affermare che Giovanni si decise a rivedere e rielaborare le sue fonti in modo radicale, sospinto dalla meditazione della Parola di Dio ad approfondire il significato della vita e delle opere di Gesù.

Inoltre per i problemi di interpretazione sono utilissime le sintetiche pagine di KARLH. SCHELKLE, Teologia del Nuovo Testamento, vol. II, Edizioni Dehoniane, Bologna 1980, pagg. 85-104.

 

 

 

 

Leggendo i racconti di miracoli sarà importante guardarsi da alcune tentazioni. Prima fra tutte quella di «spiritualizzare i racconti, facendone semplicemente dei simboli di realtà interiori» (B. Corsani) dimenticando che i segni del regno non prescindono dalla concretezza ‘materiale’. La tentazione di spiegare razionalmente i racconti di miracoli consiste nel tentativo di ridurre il tutto ad un dato che sia accettabile alla logica razionalista moderna. Si presti però attenzione ad un fatto: non è razionalismo l'uso 'razionale' degli strumenti linguistici, dei procedimenti simbolici, delle conoscenze storiche, delle acquisizioni del metodo storico-critico. Diversamente ricadremmo in una lettura ingenua o fondamentalista. La scienza dell'interpretazione può servirci per metterci ancora più genuinamente di fronte alla «stravaganza» del messaggio biblico! Un corretto uso delle conoscenze razionali (con tutti i loro pregi e i loro limiti!) non conduce affatto al razionalismo, ma può costituire un ottimo servizio ad una fede profonda e radicale. Così pure sarà necessario guardarsi dalla pretesa di ritenere esauriente, perfetta e unica una determinata lettura, con un significato totalmente preciso e fisso. Prendiamo il caso del miracolo dei pani e dei pesci. Come non vedere che il segno del pane popola le civiltà antiche, si trova nel Vecchio Testamento, rimanda ai pasti di Gesù con i peccatori, alla cena del Signore e al convito del regno? Molti racconti trovano paralleli nel mondo antico, nella cultura ellenistica, nel Vecchio Testamento soprattutto. Occorre lasciare al racconto di miracolo (ma non solo ad esso) la sua valenza aperta ricordando che «leggere significa, in un certo senso, creare il testo, procedendo non in maniera arbitraria, ma nella stessa maniera in cui si presenta la diacronia della struttura del racconto di miracolo... Una lettura autentica sta sì nel prolungamento di una interpretazione già aperta, ma con atteggiamento creativo» (Xavier Léon-Dufour). Un racconto di miracolo è, in qualche modo, come un ventaglio dai mille colori. Qui sono possibili e necessarie ‘letture plurali’ nelle quali «le interpretazioni non si debbono contrapporre, ma unire» (COMUNITÀ LA CITÉ, Introduzione alla lettura biblica, Bruxelles 1983, pag. 4). Occorre. dunque, da una parte appropriarci degli strumenti necessari per un approccio serio e rigoroso a queste pagine bibliche e dall'altra, vigilando sulle facili ‘tentazioni’ che possono far torto al carattere di testimonianza di queste pagine evangeliche, ritrovare una benefica creatività. (Si veda B. CORSANI, Esegesi. Come interpretare un testo, Claudiana, Torino 1985).

 

(continua)