“Essere donna” o “essere parte” di una storia di emancipazione?
31-10-2022 - Alessandra Algostino
Volerelaluna
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Le grida inneggianti ai soffitti di cristallo infranti, alla prima donna Presidente del Consiglio, lasciano allibiti. Il discorso è chiaro, direi quasi banale: non è essere una donna (Giorgia Meloni, presidente del Consiglio), non sono gli avi immigrati (Rishi Sunak, primo ministro inglese): è essere parte, ed essere dalla parte, di una storia di dominio o di emancipazione.
Quello di Giorgia Meloni è il racconto di un
successo personale, non di una storia di liberazione collettiva delle
donne; nel vocabolario della destra, l’uguaglianza, quando è
contemplata, trasfigura in identità, si traveste di artificiale parità e
si connota in senso formale (un caso che nel discorso programmatico
l’enfasi sia sulla democrazia liberale?). Non è un passo in avanti per
le donne. Non si tratta di sedersi tra gli oppressori, ma di scardinare i
meccanismi di dominio; non di raggiungere una parità di accesso ai
privilegi di una società disuguale, ma di trasformare la società.
Quando si ragiona di parità di «condizioni competitive» (così testualmente Draghi, nelle Dichiarazioni programmatiche del 17 febbraio 2021), si assiste a una «mercificazione del pensiero femminista» (bell hooks), che viene rovesciato con una eterogenesi dei fini in un femminismo neoliberista, antitetico rispetto a un percorso di liberazione e trasformazione sociale. Il femminismo, invece, condivide la lotta contro uno stato di subalternità, che è lo stesso delle condizioni servili dei lavoratori della logistica e dei braccianti agricoli, o della vulnerabilità che contraddistingue i migranti.
Quando si ragiona di parità di «condizioni competitive» (così testualmente Draghi, nelle Dichiarazioni programmatiche del 17 febbraio 2021), si assiste a una «mercificazione del pensiero femminista» (bell hooks), che viene rovesciato con una eterogenesi dei fini in un femminismo neoliberista, antitetico rispetto a un percorso di liberazione e trasformazione sociale. Il femminismo, invece, condivide la lotta contro uno stato di subalternità, che è lo stesso delle condizioni servili dei lavoratori della logistica e dei braccianti agricoli, o della vulnerabilità che contraddistingue i migranti.
La liberazione delle
donne è segnata dalla consapevolezza della trasversalità dei processi di
emancipazione (il discorso dell’intersezionalità) e, nell’originalità e
indipendenza propria di ciascuna lotta, è naturalmente parte di un
“blocco storico”, ovvero di una classe accomunata dall’essere contro
l’oppressione. Il nodo è sempre lo stesso, dominio o emancipazione, la
storia come «lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese»
(Marx, Engels) fra oppressori e oppressi, liberi e schiavi, subalterni e
classe dominante. Non è una semplificazione, ma una demistificazione.
Troppe maschere si aggirano oggi sulla scena: economia sociale di mercato fortemente competitiva (disuguaglianza e “sgocciolamento di qualche beneficio”); guerra per la difesa della democrazia (guerra fra imperialismi); imprese come soggetto e oggetto delle politiche (liquidazione dei diritti sociali e dei lavoratori); autonomia differenziata (istituzionalizzazione della diseguaglianza e del suo incremento); semipresidenzialismo o presidenzialismo nel nome della stabilità dell’esecutivo (ndr: stabilità per chi e per che cosa?) e della sovranità popolare (concentrazione del potere e populismo); “democrazia decidente” (togliere voce alle opposizioni, minoranze e dissenso è svuotare la democrazia); semplificazione e deregolamentazione (via libera alla legge del più forte). L’elenco sarebbe lungo, ma un esempio ancora è doveroso: hotspot nei paesi africani per tutelare i migranti (delocalizzazione della tortura e negazione del diritto di asilo). Non aggiungiamo alla lista la lotta delle donne .
A proposito di dominio, emancipazione, e negazione del conflitto, c’è anche il nazionalismo tradotto (anzi, non tradotto!) con quel made in Italy, finanche dal sapore un po’ ridicolo, se non veicolasse, al di là della consueta retorica della destra (per inciso: estrema, non centrodestra) una visione identitaria che cancella il conflitto sociale. Un nazionalismo, condito, quindi, con il pathos elementare della triade “Dio, patria e famiglia” e l’imperitura individuazione del nemico nello straniero da ricacciare – letteralmente – in mare; sempre, però, saldamente atlantista: può esserci un governo fascista, ma non uno non atlantista… E poi ancora, l’impresa, al centro, senza vincoli («il motto di questo Governo sarà: «non disturbare chi vuole fare»: : un nazionalismo, dunque, marcatamente neoliberista; quel neoliberismo che da anni nega il conflitto sociale e nella sua tensione egemonica e vieppiù militarizzata arruola le coscienze in un percorso a senso unico.
Troppe maschere si aggirano oggi sulla scena: economia sociale di mercato fortemente competitiva (disuguaglianza e “sgocciolamento di qualche beneficio”); guerra per la difesa della democrazia (guerra fra imperialismi); imprese come soggetto e oggetto delle politiche (liquidazione dei diritti sociali e dei lavoratori); autonomia differenziata (istituzionalizzazione della diseguaglianza e del suo incremento); semipresidenzialismo o presidenzialismo nel nome della stabilità dell’esecutivo (ndr: stabilità per chi e per che cosa?) e della sovranità popolare (concentrazione del potere e populismo); “democrazia decidente” (togliere voce alle opposizioni, minoranze e dissenso è svuotare la democrazia); semplificazione e deregolamentazione (via libera alla legge del più forte). L’elenco sarebbe lungo, ma un esempio ancora è doveroso: hotspot nei paesi africani per tutelare i migranti (delocalizzazione della tortura e negazione del diritto di asilo). Non aggiungiamo alla lista la lotta delle donne .
A proposito di dominio, emancipazione, e negazione del conflitto, c’è anche il nazionalismo tradotto (anzi, non tradotto!) con quel made in Italy, finanche dal sapore un po’ ridicolo, se non veicolasse, al di là della consueta retorica della destra (per inciso: estrema, non centrodestra) una visione identitaria che cancella il conflitto sociale. Un nazionalismo, condito, quindi, con il pathos elementare della triade “Dio, patria e famiglia” e l’imperitura individuazione del nemico nello straniero da ricacciare – letteralmente – in mare; sempre, però, saldamente atlantista: può esserci un governo fascista, ma non uno non atlantista… E poi ancora, l’impresa, al centro, senza vincoli («il motto di questo Governo sarà: «non disturbare chi vuole fare»: : un nazionalismo, dunque, marcatamente neoliberista; quel neoliberismo che da anni nega il conflitto sociale e nella sua tensione egemonica e vieppiù militarizzata arruola le coscienze in un percorso a senso unico.
E qui interviene il merito, sussunto nella prospettiva della
meritocrazia, con la sua legittimazione e riproduzione delle
diseguaglianze: la povertà diviene una colpa, il disagio sociale una
devianza e la redistribuzione della ricchezza una caritatevole
elargizione, “da meritare”.
Infine la sicurezza – mantra della destra evocato nelle dichiarazioni programmatiche come «dato distintivo» – in nome della quale restringere diritti, in primo luogo gli spazi di dissenso e di protesta: un nazionalismo autoritario. Di nuovo, nel segno del dominio. La libertà, citata più volte nel discorso di Giorgia Meloni, chiude il quadro, una libertà individualista e autoreferenziale. La libertà senza uguaglianza, senza uguaglianza sostanziale, è un privilegio per pochi: non è liberazione e emancipazione, ma, ancora, evoca l’orizzonte del dominio.
Nel giorno in cui il Governo si è presentato alla Camera dei deputati per la fiducia, la polizia è intervenuta contro gli studenti alla Sapienza e il neoministro dell’Interno ha minacciato di bloccare le navi che hanno salvato vite: le scelte sono chiare. Contro un governo, neoliberista, autoritaritario, nazionalista e patriarcale, resta fondamentale l’«ora e sempre Resistenza» (Calamandrei): resistere per la democrazia, conflittuale, sociale, dalla parte dell’emancipazione, disegnata dalla Costituzione antifascista.
Infine la sicurezza – mantra della destra evocato nelle dichiarazioni programmatiche come «dato distintivo» – in nome della quale restringere diritti, in primo luogo gli spazi di dissenso e di protesta: un nazionalismo autoritario. Di nuovo, nel segno del dominio. La libertà, citata più volte nel discorso di Giorgia Meloni, chiude il quadro, una libertà individualista e autoreferenziale. La libertà senza uguaglianza, senza uguaglianza sostanziale, è un privilegio per pochi: non è liberazione e emancipazione, ma, ancora, evoca l’orizzonte del dominio.
Nel giorno in cui il Governo si è presentato alla Camera dei deputati per la fiducia, la polizia è intervenuta contro gli studenti alla Sapienza e il neoministro dell’Interno ha minacciato di bloccare le navi che hanno salvato vite: le scelte sono chiare. Contro un governo, neoliberista, autoritaritario, nazionalista e patriarcale, resta fondamentale l’«ora e sempre Resistenza» (Calamandrei): resistere per la democrazia, conflittuale, sociale, dalla parte dell’emancipazione, disegnata dalla Costituzione antifascista.