Cosa vuol dire essere un ebreo
Due saggi si interrogano su una questione da sempre assai
complessa Perché oltre alla diaspora s’è aggiunta una
dimensione politica.
di CORRADO AUGIAS
Si parla spesso, anche troppo, di ebrei e di ebraismo.
Per lo più in termini impropri, cioè strumentali o polemici.
Due libri appena usciti aiutano a chiarire la complessa questione – perché la questione è indubbiamente complessa.
Il primo s’intitola "Degli ebrei e dell’ebraismo", colloquio tra il saggista e storico Riccardo Calimani e Riccardo Di Segni, medico, rabbino capo della comunità romana.
L’altro ha il beneaugurante titolo "Shabbàt Shalòm (direi: Sereno sabato)" curato da Dario Coen in dialogo con lo psicoanalista David Meghnagi e, anche qui, con rav Di Segni.
Si può cominciare con una domanda base: chi è ebreo? Quale storia, quale radicamento, ha la sua appartenenza a un popolo, uno Stato, una lingua, una fede? Domanda non facile, soprattutto dopo che agli ebrei sparsi qua e là per il mondo (diaspora), s’è aggiunta la dimensione politica rappresentata dallo Stato d’Israele con i suoi problemi interni e di rapporto con i palestinesi.
Chi è ebreo, dunque? Di Segni e Calimani hanno opinioni diverse. Per rav Di Segni: «È ebreo chi nasce da madre ebrea e chi si converte all’ebraismo».
Sembra semplice? Non lo è. Chi si converte aderisce non ad una nazionalità ma a una religione. L’ebreo per nascita può invece scegliere di essere un non credente.
Lo stesso Calimani, per esempio, afferma la sua relativa indifferenza ai precetti: «Per me, dice, l’ebraismo non è una fede.
Mi considero ebreo perché la mia condizione è nutrita di libertà e di antidogmatismo... Per dirla tutta: è ebreo chi vuole essere ebreo».
Una condizione ovviamente inaccettabile per un maestro di dottrina che si complica ulteriormente qualche si scende nei dettagli. Il titolo del secondo capitolo ne dà un’idea: «Ebreo, giudeo, israelita, israeliano, sionista, semita».
Alcune diversità sono intuitive, altre hanno bisogno di una spiegazione che in genere risale, è il caso di dire, a tempi biblici.
Prendiamo “israelita”. Dice rav Di Segni: «Gli ebrei emancipati preferirono il termine israeliti perché ebreo e giudeo suonavano offensivi nel linguaggio comune». Confermo con un episodio personale. Il mio amico Giorgio Algranati, di benedetta memoria, emigrato in Israele cambiò il nome in Jehuda Granit. Un giorno che lo chiamai Giuda in italiano mi disse: «Sai che in italiano Giuda mi fa un certo effetto?».
Tanto può una secolare condanna nemmeno del tutto fondata; il personaggio di Giuda è anche lui molto più complicato di quanto lo tramandi una frettolosa vulgata. Del resto, rovesciando il tema, chi pensa mai che il vero nome dell’ebreo Gesù è Yehoshua?
Quanto a Israel, chiarisce Riccardo Calimani, è il nuovo nome che il patriarca Giacobbe riceve dall’angelo del Signore dopo aver lottato con lui. Infatti, significa «Colui che ha combattuto con Dio».
Israelita è dunque il membro di un popolo che ha tenuto testa a Dio. Per la cronaca: nella chiesa parigina di Saint Sulpice c’è un grande affresco di Eugène Delacroix che raffigura questo episodio della Genesi.
Uno dei capitoli è dedicato al cruciale problema dell’ostilità di cui spesso gli ebrei sono stati vittime (“Antigiudaismo, antisemitismo, antisionismo”). Credo di poter riassumere l’intensa discussione con un argomento avanzato da Di Segni: «Alla radice dell’ostilità antiebraica, difficile da sintetizzare, si può dire che ci sia la paura per il diverso.
L’ebreo è spesso visto come una diversità disturbante religiosa, etnica, economica». Calimani aggiunge un ulteriore connotato: «Gli ebrei sono stati i primi a negare nei fatti la venuta del Cristo, dell’Unto del Signore, del Messia Salvatore delle genti. Aver messo in dubbio queste certezze ha nutrito l’antigiudaismo per diciotto secoli».
Il che ci porta, saltando (purtroppo) ad altri temi affascinanti, al rapporto tra ebrei e cristiani, in particolare in Italia, ancora più in particolare, a Roma.
La città dei papi ha istituito il suo ghetto nel 1555 per volere di Paolo IV Carafa che, da cardinale capo dell’Inquisizione, s’era già segnalato per aver fatto bruciare il Talmùd a Campo de’ Fiori.
Bisognerà arrivare allo Statuto Albertino (1848) perché agli ebrei sia garantita la parità che a Roma, comunque, sarà concessa solo nel 1870 con la fine del dominio temporale. E oggi? La situazione è migliorata, importante che Giovanni Paolo II, nel 1986, si sia recato in visita alla sinagoga, primo papa a farlo. Resta però vero che quando si dice che Gesù era un ebreo circonciso, educato nei riti ebraici, morto da ebreo e non da cristiano, si rischia di suscitare incredulità o stupore.
Eppure, fino a pochi anni fa, i calendari cristiani, alla data del 1° gennaio, recavano la dicitura “Circoncisione di N.S.G.C.”. Così come il 2 febbraio ricordavano “Purificazione della Vergine” perché Maria, obbediente alla Legge, quaranta giorni dopo il parto s’era recata al tempio per essere purificata.
Il dialogo descrive e analizza usi e proibizioni alimentari e sessuali, divieti e precetti, tra i quali i famosi dieci comandamenti che coincidono, ma non interamente, con quelli poi passati alla tradizione cristiana. Infine, l’importante questione del sabato di cui anche Gesù ebbe ad occuparsi.
Chiarisce rav Di Segni che Shabbàt non è semplicemente il giorno in cui non si lavora bensì quello in cui «non si interagisce con la materia, non si trasforma, non si crea. Non è proibita la fatica bensì il dominio che questa trasformazione comporta foss’anche il semplice atto di accendere un fuoco». Ma su questo particolare aspetto molto aiuta l’altro saggio citato in apertura.
Con la sua intervista Dario Coen chiarisce il significato, anzi la pluralità di significati, di questa ricorrenza settimanale. Di Segni: «Lo Shabbàt è nato con la creazione del mondo. Dopo sei giorni di creazione il Signore si fermò. Quindi Shabbàt e creazione sono due termini indissociabili». Meghnagi: «L’idea dello Shabbàt vuole andare oltre [la semplice idea di riposo] un frammento del mondo messianico irrompe nella vita quotidiana illuminandola qui e ora».
Stefano Folli nella prefazione precisa che questo libro non è dedicato solo agli ebrei: «È una ricognizione nella memoria, risale alle radici di una storia comune, benché scandita da terribili strappi: quelle che si definiscono le radici giudaico cristiane».Arricchiscono e rallegrano il testo le belle illustrazioni (alla Chagall) di Micol Nacamulli.
La Repubblica 7 novembre