mercoledì 14 dicembre 2022

INTERVISTA A LUIGI CIOTTI

 "Nessuno di noi può dirsi libero finché la protesta sarà repressa"

Don Luigi Ciotti

«Sono uno dei firmatari perché penso sia giusto e doveroso firmare. Ma penso anche che per impedire un'ingiustizia non bastino le firme dei cittadini né le condanne dei singoli governi». Don Luigi Ciotti è la testimonianza vivente del valore dello schierarsi, del far sentire la propria voce, della libertà come partecipazione, per dirla alla Gaber. Ed è anche la testimonianza di come si possano coinvolgere e trascinare nelle battaglie i giovani, quelli occidentali, che le libertà le danno per scontate o silenziati dalla rassegnazione a un mondo che non si può cambiare. Per questo è naturale trovare il nome del fondatore di Libera tra i firmatari dell'appello per la liberazione di Fahimeh Karimi e per tutto il popolo iraniano.

Don Ciotti, cosa serve oltre alle firme e alle condanne?

«Occorre un'azione comune – non solo dell'Europa ma dell'intero mondo occidentale – contro il Paese che intende commettere l'ingiustizia perché sia chiaro che il suo atto non resterà impunito ma avrà conseguenze pratiche e materiali nei rapporti col resto del mondo. Il problema, enorme, è che l'Occidente manca della credibilità etica per stabilire criteri morali. La debolezza culturale dell'Occidente sta nella sua povertà etica, povertà che viene dall'aver sostituito il bene comune con l'interesse privato. Non si può dettare legge senza un'etica, cioè senza coerenza tra princìpi e azioni.

Lei ha detto in passato che «ci sono troppi neutrali, la malattia più terribile è la delega»: come si fa ad abbattere un regime violento senza la violenza?

«Appunto con la forza di ideali affermati non solo retoricamente, ma sostenuti dalla verità delle azioni, da un'etica incarnata nella vita. Le azioni contro un regime violento non sono azioni per istituire un contropotere, ma azioni a soccorso delle vittime di quel regime. L'Occidente tradisce la sua millenaria civiltà se smette di difendere e sostenere i deboli, i perseguitati, i discriminati di ogni parte del mondo. "Nazioni unite" – ideale che ha ispirato la costituzione dell'Onu – dovrebbe significare questo: nazioni unite per la giustizia e la dignità di tutti i popoli».

Pensa che ci sia una disparità nell'attenzione riservata all'Iran rispetto a quella per la guerra in Ucraina che mette le mani direttamente nelle nostre tasche?

«Mi pare evidente, la disparità, e la ritengo uno degli effetti del dominio globale della logica dell'interesse privato. Finché non avremo il coraggio di guardare al di là del nostro naso e impegnarci anche per ciò che non ci tocca direttamente dal punto di vista materiale, ma ci ferisce da quello etico-morale, non saremo in grado di costruire un mondo più giusto e più umano».

Cosa ci insegnano i ragazzi e le ragazze iraniane?

«Che la libertà e la democrazia non sono appunto beni su cui si può "campare di rendita". La libertà è un percorso, un processo: si diventa liberi e non si smette mai di diventarlo. Anche perché la libertà è il più prezioso e, al tempo stesso, il più esigente dei beni comuni in quanto ideale che aspira all'universalità: si è liberi solo quando anche tutti gli altri lo sono. Se viene ridotta alla sola sfera individuale, la libertà diventa arbitrio, rivendicazione di potere, che è la grande malattia del mondo occidentale. La libertà è l'esatto contrario dell'arbitrio, la libertà è il compito che ci assegna la vita: quello d'impegnarla e impegnarci per liberare chi ancora libero non è».

Questa mobilitazione lascerà un segno nella coscienza collettiva e nei giovani di oggi, cioè gli adulti di domani?

«Me lo auguro con tutto il cuore perché coscienze segnate da sofferenze e ingiustizie che avvengono anche a migliaia di chilometri di distanza sono coscienze capaci di quell'immedesimazione che è molto più di una generica "solidarietà": è capacità di sentire sulla propria pelle il dolore degli altri e trasformare quel sentimento in azione, in impegno. Ho molta fiducia nei giovani anche perché, a differenza di molti adulti, hanno una sensibilità ancora viva, non ammaestrata se non anestetizzata».

L'Iran era un Paese libero prima di trasformarsi in un regime teocratico: la Storia può tornare indietro?

«La Storia regredisce quando si danno per scontati diritti frutto di conquiste ottenute al prezzo di lotte, fatiche e anche tanto sangue. O regredisce quando, allo sviluppo tecnologico, non corrisponde un progresso civile, sociale, culturale, una maggiore consapevolezza delle responsabilità che abbiamo come cittadini e come membri di una comunità. Qui credo stia la causa della crisi delle democrazie e della politica in generale, diventata ormai, salvo eccezioni, esecutrice delle direttive dei "poteri forti" economici. Ma proprio questo sistema economico sta devastando, in nome del valore assoluto del profitto, il patrimonio sociale, ambientale del pianeta, alimentando disuguaglianze e dunque ingiustizie. Ha detto bene Papa Francesco anni fa nella "Laudato sì" che questo sistema economico è "ingiusto alla radice". E nel mio piccolo gli sono fraternamente accanto nell'accesso di commozione provato nel giorno dell'Immacolata parlando delle sofferenze del popolo ucraino».

Guardando all'Iran è più fiducioso in una svolta o preoccupato?

«La fiducia non deve offuscare o sostituire la lucidità: il desiderio di libertà potrà realizzarsi se si verificheranno quelle condizioni di mobilitazione globale dell'Occidente a cui accennavo. Altrimenti prevarrà la repressione anche violenta e cruenta. Ma il sostegno alla lotta dei giovani e in particolare delle donne iraniane potrà essere importante se l'Occidente per primo avrà il coraggio di affidare alle donne, oltre che pari diritti, uguali e maggiori responsabilità. In Occidente prevale ancora, salvo eccezioni, l'idea di una rappresentazione puramente ornamentale del mondo femminile perché le leve del vero potere sono ancora quasi esclusivamente in mani maschili, con i risultati che vediamo». 

PAOLA ITALIANO, La Stampa 11 dicembre 2022