lunedì 19 dicembre 2022

LA RIVOLUZIONE RIMOSSA


La rivoluzione rimossa


di LUIGI MANCONI


Perché mai una mobilitazione collettiva tanto imponente, che attraversa gran parte della società, che mette in crisi gli apparati dello Stato e che coinvolge strati sociali così estesi, fatica a essere definita – in particolare in Occidente e in Italia – una rivoluzione? Perché mai nei confronti di quanto accade quotidianamente in Iran si deve registrare una simile sottovalutazione?

Penso che in primo luogo pesi un pregiudizio eurocentrico: lo stesso che non troppi mesi fa faceva esitare molti a definire come “resistenza” quella messa in campo dalla popolazione ucraina contro l’invasione russa.

Analogamente, sembra che la categoria di rivoluzione sia una sorta di esclusiva occidentale e che dunque non si ritrovi nei connotati propri di un movimento come quello che si diffonde da ormai quasi tre mesi nella Repubblica Islamica dell’Iran.

Pertanto, la sola rivoluzione concepibile sarebbe quel processo che prende le mosse dai rapporti di produzione, si sviluppa all’interno della struttura economica, vede come soggetti le classi subalterne e ha come posta in gioco il controllo del potere nei luoghi di lavoro e poi, via via, nel sistema delle istituzioni fino al cuore dello Stato centrale. E la guida di quel processo rivoluzionario risiederebbe nelle mani, nel pensiero e nella strategia di una avanguardia, di un soggetto organizzato, di un partito politico.

Questo il paradigma classico delle rivoluzioni, sia di quelle vittoriose che di quelle sconfitte, elaborato in Occidente sulla scorta dell’originario modello sovietico. Quanto accade in Iran appare totalmente diverso e questo rappresenta la prima difficoltà a comprendere – innanzitutto comprendere – la natura profonda di tali vicende: si tratta forse della prima vera rivoluzione femminile al mondo e della prima vera rivoluzione culturale al mondo (nulla a che vedere con quella cinese della seconda metà degli anni sessanta).

Certo, sappiamo quale è stato il ruolo delle masse femminili in alcuni processi rivoluzionari, specie in America latina e ancor più, all’altro capo del mondo, in Kurdistan. Ma qui siamo di fronte a qualcosa di assai diverso. Qui il protagonismo delle donne è determinante e dominante: e tale rimane nel mentre che altri gruppi sociali, altre categorie di cittadini e altre aree del paese – dalle fabbriche alle province lontane – si affiancano loro nelle proteste.

Quindi la componente maschile cresce giorno dopo giorno, ma la presenza femminile continua a essere quella qualificante. Come non era accaduto all’interno dei movimenti studenteschi della fine degli anni ‘60 e dei primi ‘70 e, più di recente, nel corso delle “primavere arabe”.

Ed emerge un altro dato, assai significativo: la giovane e giovanissima età di chi scende nelle piazze.

Sorprendentemente la componente costituita da quindicenni e sedicenni sembra assai consistente, così come è elevato il numero delle vittime di quella stessa età. È un fattore fondamentale. Come notavano tempo fa nel saggio Demographics: The Ratio of Revolution David Munro e Claudia Zeisberger (citato da Luca Misculin de Il Post), l’esplosione di un moto rivoluzionario è strettamente correlata alla rapidità della crescita della quota di 15-29enni sulla intera popolazione. Ovvio che non ci si possa affidare a una formula statistica, ma il senso del ragionamento è chiaro e non costituisce certo una novità. Il ruolo svolto dalla giovane età è una costante essenziale di tutti i processi rivoluzionari nella storia (e come sottolinea ancora Misculin, Robespierre e Danton erano poco più che trentenni).

Nel caso degli eventi iraniani l’età media sembra essersi ulteriormente abbassata, e di molto. E questo rappresenta un elemento che si rivelerà cruciale per il futuro, anche nell’ipotesi che l’attuale mobilitazione si concluda con una disfatta. Ma perché ho parlato di una rivoluzione culturale?

Partiamo da una considerazione: nel crudo combattimento di strada a contrapporsi sono le mani nude delle giovani e giovanissime e dei giovani e giovanissimi e le armi della cosiddetta polizia morale, costituita da due apparati militari, Basij e Gasht-e Ershad, delegati al controllo dell’applicazione della sharia e in particolare dell’abbigliamento e del costume tradizionali.

Sembrerà eccessivo a qualcuno, ma penso che quel mostrare le ciocche di capelli, considerato oltraggioso atto immorale, rappresenti per la gioventù iraniana l’affermazione di una nuova e diversa etica individuale e pubblica. In quel gesto, un nuovo sistema di valori incentrato sulla libertà. Cosa c’è di più dirompente, progressista e rivoluzionario di quella volontà così drammaticamente espressa? Qui, l’autonomia dello stile di vita diventa la posta in gioco di un conflitto letteralmente all’ultimo sangue, dove le altre questioni (il potere, l’economia, la democrazia) vengono tutte comprese e sussunte in una sorta di concretissima sublimazione. E dove l’affermazione della libertà soggettiva (il rifiuto del velo) diventa metafora potente e materiale, e tragica, della contestazione dell’autorità, familiare così come statuale.

L’autodeterminazione su di sé e sul proprio corpo è, in ultima istanza, il fondamento costitutivo della dignità umana. Per questa ragione ci troviamo di fronte a una rivoluzione moderna, modernissima e per questo, forse, non riusciamo a intenderla.

Certo, le rivoluzioni possono essere sconfitte e dell’esito di quella in corso in Iran nulla possiamo prevedere. Ma l’indifferenza occidentale (di cui ha scritto su questo giornale Concita De Gregorio) rischia di fornire un pesante contributo ai nemici di quella rivoluzione e delle sue intrepide donne.


La Repubblica 8 dicembre 2022