GUERRA O PACE
La scelta delle armi a senso unico porta in un vicolo cieco
Francesco Vignarca*
Il Manifesto 24/1/ 2023
In queste ore la Camera ha iniziato la discussione finale (voto previsto a breve) sulla conversione del decreto-legge governativo di Dicembre che proroga l’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore dell’Ucraina. Un dibattito che non dovrebbe portare novità di rilievo, non solo perché il voto al Senato ha già reso chiaro l’ampio consenso dietro questa norma ma soprattutto perché il governo Meloni ha deciso di allinearsi alle disposizioni già messe in pratica dall’esecutivo Draghi nei primi mesi di guerra. Bloccando il Parlamento in sterili discussioni generiche (più di posizionamento mediatico-politico) e privandolo di un vero ruolo di controllo, con il meccanismo di “secretazione” del decreto interministeriale che individua i sistemi d’arma da inviare a Kiev.
Per questo sono di sicuro più interessanti le diverse dichiarazioni del Ministro della Difesa Crosetto sui dettagli di tale lista e in un altro senso – più di prospettiva – la presentazione delle linee programmatiche del suo Dicastero davanti alle competenti Commissioni riunite, a partire da questo mercoledì. Poiché da tali linee potranno venire importanti indicazioni su come il cambiamento di scenario imposto dal conflitto in Ucraina verrà recepito per il futuro anche dalle Forze Armate e dal “sistema Difesa” del nostro Paese.
Va ricordato infatti come il terribile conflitto armato in Ucraina è stato fin dal principio sfruttato per giustificare quello che nei fatti potrebbe diventare il più massiccio aumento di spesa militare globale degli ultimi 50 anni. La Germania vuole arrivare a 100 miliardi annui, Macron vuole raddoppiare il budget militare francese dal suo insediamento, il Congresso USA ha appena votato un aumento annuo dell’8% (oltre 50 miliardi di dollari in più di quanto proposto da Biden), la Cina si è da tempo consolidata come secondo investitore armato mondiale. E anche l’Italia irrobustisce il suo percorso verso il fantomatico 2% del PIL, mettendo a budget per il 2023 ben 26,5 miliardi di euro complessivi.
In questo scenario è quasi persino ovvio che si continui ad insistere su una soluzione meramente militare della guerra in Ucraina (cosa ben lontana da una soluzione di Pace). E continua a risultare bizzarra la scelta italiana di non rivelare nel dettaglio le proprie forniture armate: decisione che apre peraltro la strada a possibili manipolazioni e “fake news”, come quelle recentemente diffuse dall’Ambasciata russa a Roma. Visto il coinvolgimento ormai chiaro di tutto il blocco occidentale nelle operazioni militari ucraine è difficile sostenere l’utilità di omettere i dettagli: la consapevolezza di quanto si sta inviando aiuterebbe invece a capire che tipo di mosse successive si dovranno mettere in campo in termini di ripristino magazzini, strutturazione dello strumento militare, strategie e posture, scelte di procurement conseguenti. Ma forse è proprio questo l’obiettivo.
Il dibattito parlamentare e politico italiano si colloca in una situazione apparentemente tesa a livello di schermaglie mediatiche (o sui social) in particolare per l’approccio non ancora formalizzato della Germania sull’invio (diretto o indiretto) dei carri armati Leopard. Ma in realtà dopo il summit di Ramstein la strada pare chiaramente tracciata. Washington ha annunciato nuovi aiuti militari per diversi miliardi, mentre il Consiglio degli Esteri UE ha deciso una nuova tranche di 500 milioni per la cosiddetta “Peace Facility” (in realtà lo strumento che copre finanziariamente l’invio di armi) che sale dunque a 3,6 miliardi di euro complessivi.
Il che porterà ad un aumento quantitativo, oltre che qualitativo, dei sistemi d’arma che arriveranno nei prossimi mesi nella disponibilità di Kiev. E che ci porta anche ad una valutazione dei costi per l’Italia: prima di queste ultime decisioni come Osservatorio Mil€x lo stimavamo in almeno 485 milioni, mentre di recente i Ministro degli Esteri Tajani ha parlato di “circa un miliardo” di forniture (anche se non è chiaro se si riferisca al costo diretto o al controvalore di magazzino).
Chiunque non si cibi solo della retorica interessata di chi magnifica l’importanza della guerra standone bene a distanza (tranne quando deve incassare vantaggi) non può che trarre gravi preoccupazioni da questa situazione. Da un lato non è chiaro come l’ennesima fornitura militare definita “cruciale” (oggi sono i Leopard, come prima sono stati i Javelin, gli Himars, i Patriot…) possa avvicinare la fine di un confitto in cui l’aggressore verso cui si sta facendo fronte comune è stato dato per spacciato già troppe volte. E la cui leadership sempre più pericolosamente utilizza minacce nucleari come strumento di ricatto definibile come “mafioso” (d’altronde war is a racket, scriveva giustamente il generale Butler…).
Dall’altro non è nemmeno chiaro come questo seguire quasi pedissequamente la strategia di Washington (e quando anche timidamente una voce esce dal coro l’attacco a più livelli è pesante, come si è visto per Scholz) possa prefigurare una qualche prospettiva positiva per l’Unione Europea, anche solo dal punto di vista “di potenza” (militare e politica), tralasciando approcci di pace.
Diversamente dalle inconsistenti e strumentali retoriche spese a piene mani, l’Europa sta uscendo a pezzi a seguito del primo anno di invasione russa dell’Ucraina: la Francia continua a volersi ritagliare un ruolo di braccio militare in quanto unica potenza nucleare del continente, la Germania oscilla tra vari interessi con un difficile equilibrio politico interno, i Paesi dell’est hanno amplificato il loro approccio da falchi pro-NATO, è pure crollato il caposaldo della neutralità scandinava e in generale c’è poco coraggio da parte di governi o delle stesse istituzioni europee nel proporre percorsi di pacificazione. Gli elementi costitutivi dell’Unione vengono tralasciati e dimenticati, solo andando a traino dei pochi timidi tentativi diplomatici, mentre dalle parti di Bruxelles sono stati solo capaci di mettere soldi a disposizione dell’industria delle armi.
Un comparto, quello militare-industriale, che fin dal principio dell’invasione ha visto crescere le proprie aspettative di alto guadagno – lo dimostrano gli aumenti in borsa addirittura precedenti al 24 febbraio scorso – soprattutto per i giganti di oltre Atlantico. Una recente stima colloca in circa 22 miliardi di dollari il possibile aumento di vendite di armi statunitensi ai partner NATO come semplice effetto della necessità di mettere stock a magazzino a seguito dell’invio di aiuti armati a Kiev.
Se invece vogliamo tornare a quello che conta davvero, cioè alla vita e alla prospettiva di futuro delle popolazioni e comunità in Ucraina e di tutti gli altri luoghi del mondo in guerra, bisognerebbe smetterla di banalizzare ogni decisione come se si stesse solo asetticamente giocando ad un Risiko globale. Pericoloso per i più, ma vantaggioso in termini economici e politici per alcuni gruppi di potere. Non a caso sono quasi esclusivamente gli analisti “geo-politici” (o coloro che hanno vantaggi specifici di varia natura) a ragionare in tali termini, che invece raramente vengono proposti dai militari (ben più seriamente consci degli impatti negativi delle guerre).
Si potrà forse discutere all’infinto del ruolo delle forniture di armi nei mesi scorsi, ma ciò che è drammaticamente chiaro è la loro inefficacia nell’aiutare a risolvere il conflitto in una direzione di Pace reale. Perché – è altrettanto chiaro – sono stati sempre deboli, superficiali, interessati i (pochi) tentativi di costruzione di un percorso diplomatico che curi l’insicurezza globale che è la motivazione primaria e di base anche di questa guerra. Percorsi diplomatici invece vanamente invocati da popolazioni e società civili.
Clemenceau diceva che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari. Il problema è che la Pace è ancora più seria ed importante per lasciarla in mano a decisori politici che vedono le armi come unica soluzione.
*Coordinatore Campagne Rete Italiana Pace e Disarmo