domenica 12 febbraio 2023

 

22 - DIVERSAMENTE CHIESA - giugno 2014
 



RIABILITATO IL LIBRO DI DON MILANI, MA DA COSA? DA QUALI COLPE?

La Congregazione per la dottrina della fede ha annunciato di aver tolto il divieto di pubblicazione per Esperienze Pastorali, il primo fondamentale libro di don Milani, colpito nel 1958 dal veto del Sant'Uffizio. Adele Corradi, la professoressa che a Barbiana lavorò al fianco del sacerdote, si indigna alla notizia resa pubblica nei giorni scorsi dal cardinal Betori.

«È la Chiesa che ha commesso gravi errori, inflitto ingiuste sofferenze, dato grave scandalo» - scrive la professoressa in un messaggio inviato al sacerdote fiorentino Alessandro Santoro, il prete delle Piagge, che l'ha reso pubblico, avendolo condiviso in ogni riga - «il libro, frutto di nove anni di lavoro, rivelava in ogni pagina un amore attento e costante da parte di un giovanissimo prete verso il suo popolo. La responsabilità della Chiesa è stata quella di far sparire per anni un libro che avrebbe potuto portarle “linfa vitale”. È la Chiesa e non don Milani a dover chiedere la riabilitazione».

In Esperienze pastorali, nell’Italia povera del dopoguerra che non conosceva ancora il boom economico degli anni ’60, don Milani scriveva: “Bisogna dare la terra a chi ha il coraggio di lavorarla, bisogna dare le case coloniche a chi ha il coraggio di abitarle, bisogna dare il bestiame a chi ha il coraggio di ripulirgli la stalla ogni giorno. I boschi appartengono a chi ha il coraggio di vivere in montagna. Bisogna recuperare tutte le ricchezze che per secoli sono partite dalla terra verso i salotti cittadini, bisogna buttarle ai piedi dei contadini e supplicarli di perdonarci”. Un messaggio evangelico, aspro e provocatorio, che il Vaticano non seppe leggere come tale al punto da ordinare il ritiro del libro dichiarato "inopportuno". Oggi, dopo 56 anni, il passo indietro.

Don Lorenzo Milani (27 maggio 1923 -26 giugno 1967) sacerdote, insegnante ed educatore, per il suo impegno civile nell'istruzione dei poveri, la sua difesa dell'obiezione di coscienza e il valore pedagogico della sua esperienza di maestro è oggi considerato una figura di riferimento per il cattolicesimo socialmente impegnato. Nel dicembre del 1954, a causa di incomprensioni con la Curia di Firenze, venne mandato a Barbiana, una sperduta frazione di montagna nel comune di Vicchio, in Mugello, dove iniziò il primo tentativo di scuola a tempo pieno, espressamente rivolto alle classi popolari. La scuola di Barbiana era un vero e proprio collettivo dove la regola principale era che chi sapeva di più insegnava a chi sapeva di meno.

Lettera a una professoressa (maggio 1967), è l’opera fondamentale della scuola di Barbiana, in essa don Milani e i suoi ragazzi denunciavano il sistema scolastico e il metodo didattico che favoriva l'istruzione delle classi più ricche (i "Pierini"), lasciando all’analfabetismo il resto del paese. Il libro divenne uno dei riferimenti del movimento studentesco del '68. Il costante impegno civile procurò a don Milani un processo che fece seguito alla sua dura polemica con i cappellani militari in congedo della Toscana attorno al concetto di Patria e di guerra giusta.  In L’obbedienza non è più una virtù, scritto in difesa dell'obiezione di coscienza, allora reato, egli si distaccava dall'insegnamento e dalla tradizione cattolica. Di don Milani fu il motto "I care", mi importa, ho a cuore (in contrapposizione al "Me ne frego" fascista); la frase, scritta su un cartello all'ingresso della scuola di Barbiana, riassumeva le finalità educative di una scuola orientata alla presa di coscienza civile e sociale.

Scriveva don Milani:

“La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c’era solo una scuola elementare. Cinque classi in un'aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Dodici ore al giorno. 365 giorni l’anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell’orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico”.

(dalla “Lettera ai Giudici”, 18 ottobre 1965)


(continua)