giovedì 16 febbraio 2023

Risurrezione: Come un nuovo chicco

di Luigi Berzano

 

Nel cuore dell'autunno, l'anno liturgico delle comunità cristiane inizia a chiudersi con pensieri sul senso della storia e del creato, sul loro ritorno al nulla per poi ricominciare. Nei Vangeli queste cose ultime della storia e della vita sono chiamate con la parola greca eskaton. Ma, a volte, si è impoverito il parlare escatologico di Gesù, cioè il suo annuncio che ogni cosa contiene in sé qualcosa di oltre" e che ha valore eterno. Lo si è ridotto alla sola impermanenza delle cose, al loro essere passeggere come il manto variopinto della danza eterna del divino, come direbbe il pensiero orientale.

   Una lettura situazionista di queste pagine evangeliche ci offre una luce maggiore. Per trecento anni, Israele aveva vissuto l'apocalisse dell'occupazione greca e dopo, quella romana, vale a dire il dominio delle civiltà che si credevano superiori e sfruttavano le razze inferiori chiamate barbare. Al tempo di Gesù, molti mettevano in dubbio i "segni annunciatori" della fine dei tempi. Quando Luca metteva per iscritto il suo vangelo la fine stava per avvenire. Nell'88 a.C., durante una rivolta contro un sovrano ellenizzato ottocento ebrei erano finiti sulla forca. Il bilancio delle vittime si moltiplicherà quando, il 9 del mese di agosto del 70 d.C., l'imperatore romano Tito e le sue truppe romane occuparono e saccheggiarono Gerusalemme distruggendo il Tempio. Una guerra a cui Luca fa una probabile allusione. Il sacrificio di un uomo, cioè di Gesù, non impedì il martirio di un popolo.

   Quando Gesù diceva: «non passerà questa generazione prima che la fine arrivi», non si sbagliava; quarant'anni passarono dalla morte di Gesù alla distruzione di Gerusalemme e della meraviglia del suo Tempio. In tutto ciò il Vangelo rimane un luogo di memoria, in latino monumentum. La morte e la resurrezione di Gesù sono il grande mythos della vita.

   Per tutti gli altri discepoli, diversi da quella generazione, cioè anche per noi, di quale fine (eschaton) si tratta? La fine, nel linguaggio del Vangelo, significa fare ritorno, vocazione comune a tutte le forme di vita. Gli animali lo fanno con grande naturalità e senza saperlo, a differenza dell'uomo. Gli uccelli si ritirano chissà dove, e vanno verso la fine in silenzio. L'uomo, invece è dotato di consapevolezza di tutto ciò; questo è all'origine delle sue paure che rendono angoscioso quella fine che per altre creature è naturale provvidenza. Solo le creature umane, che pure provengono dal nulla, hanno un tale attaccamento alla vita presente da dimenticare che devono lasciarla per fare ritorno. Un ritorno, ma non ad altra vita simile a questa. Nessuna nostalgia per un ritorno al già vissuto. Nessun Paradiso come l'abbellimento di questo mondo. Ma ad altra vita diversa.

   Al tempo di Gesù, i sadducei pensavano che il futuro fosse la ripetizione del presente; per questo, nel loro scetticismo, non credevano alla resurrezione. Il parlare di Gesù evoca un ritorno al nuovo, all'inedito. San Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto diceva: «Poverini! Avete dimenticato che ciò che seminate non prende vita se prima non muore; e che quello che seminate non è il corpo che nascerà, ma un nuovo chicco?» (1ª Corinti, 15,36-37).

   Gesù direbbe: non si può credere alla resurrezione futura, se già in questa vita non si crede che crescere è cambiare, e che per essere felici è necessario cambiare molto. Il cambiamento non è necessariamente minaccioso, anzi può portare la vita alla perfezione. Solo chi si affida alla crescita e al rischio realizza la vita. L'anima vera delle creature ama il rischio; e solo dalla porta del rischio si può entrare alla perfezione. Dove cresce il rischio, cresce anche quanto porta la salvezza. Per tutto ciò Dio è un mistero vicino, ma difficile da afferrare; grande quanto è segreto.


Tempi di Fraternità, febbraio 2023