Scontro Guardia costiera-Ong
“Ostacolate i nostri soccorsi”
“Noi salviamo, voi guardate”
LAMPEDUSA — Volti stremati, vestiti lerci, piedi infilati in vecchie infradito. Accovacciati sul molo commerciale di Lampedusa, mentre il sole tramonta, un centinaio di naufraghi aspettano pazienti il traghetto che li trasferirà a Porto Empedocle. «Magari qualcuno lo abbiamo soccorso noi», dice uno dei ragazzi dell’equipaggio di Louise Michel, la nave ong finanziata dal misterioso artista Banksy, ormeggiata poco lontano. E che lì rischia di rimanere almeno venti giorni, bloccata da un provvedimento di fermo amministrativo per violazione della legge Piantedosi.
Formalmente al comandante Beckert Reimar è stato notificato ieri, ma già alle sei del mattino di venerdì, quando dalla nave umanitaria sono sbarcati i 178 naufraghi soccorsi, alla crew era stato anticipato: «Da qui non vi muovete». Motivo? Per la Capitaneria di porto la nave umanitaria avrebbe fatto tre salvataggi di troppo, ignorando l’ordine di dirigersi «senza ritardo» a Trapani dopo la prima operazione di soccorso. E per di più avrebbe intralciato le «attività già complesse» della Guardia costiera e messo a rischio i naufraghi, prendendone troppi a bordo.
«Accuse assurde», commentano dall’ong, che annuncia battaglia. Perché la ricostruzione che dalla Louise Michel fanno di quelle ventiquattro ore in cui decine di barchini, gusci di ferro, gommoni e canotti chiedevano soccorso contemporaneamente, è molto diversa. «Due imbarcazioni le abbiamo soccorse rispondendo a mayday lanciati da Frontex», protestano. E poi «è la Guardia costiera che è rimasta a guardare mentre c’era gente in acqua e noi tentavamo di rianimare un bambino». Fra i dodici dell’equipaggio c’è soprattutto amarezza. Al largo della Tunisia, almeno 29 persone sono morte in tre diversi naufragi. Ma sono cifre approssimate per difetto, che non tengono conto di un numero imprecisato di dispersi. «E noi siamo obbligati a rimanere fermi qui».
Se tregua c’è stata fra le autorità italiane e le ong, non è durata più di ventiquattro ore. E nel mirino finisce anche Sea-Bird, l’aereo ong di Sea Watch, accusato di aver intasato con «continue chiamate» i sistemi di comunicazione del centro nazionale di coordinamento dei soccorsi, «sovrapponendosi e duplicando le segnalazioni». Non sono state più di due, replicano da Sea-Bird, e «abbiamo l’obbligo di riportare i nostri avvistamenti, soprattutto in caso di palesi violazioni dei diritti umani».
Uno in particolare a Roma sembra aver dato fastidio. Riguarda la Ocean Viking, venerdì minacciata da un pattugliatore della Guardia costiera libica, che — dimostrano una serie di video — ha anche aperto il fuoco. «Spari presunti», li definisce Roma, che quando della cosa è stata avvertita — rivela l’audio di quella conversazione — si è limitata a ringraziare, per poi sbattere giù il telefono. «È strano che anche implicitamente si legittimi che una nave di un Paese terzo, finanziato dall’Europa, possa minacciare un vascello europeo — dice Francesco Creazzo di Sos Méditerranée — Sembra assurdo dire che siamo noi a intralciare i soccorsi quando invece salviamo vite umane».
Nonostante i trasferimenti, ammassati nell’hotspot di Lampedusa sono rimasti almeno 1.600 migranti. E per loro il calvario è quello consueto di un’emergenza che si ripete uguale a se stessa con i bambini costretti a dormire per terra, senza materasso né coperte, uomini e donne che affrontano file infinite per una vaschetta di riso. «Sono riuscito a mangiare quindici ore dopo che sono entrato qui», dice Mohal, 18enne siriano arrivato assieme al fratello dopo nove mesi in Libia. Adnan, indiano, invece c’è stato un anno, per metà passato in una prigione. «Mi hanno catturato mentre tentavo la traversata. Per mesi ci hanno picchiato e torturato finché le nostre famiglie non hanno pagato il riscatto». Sogna la Germania e i parenti che ha lì, «ma ora mi basterebbe poter chiamare casa e dire che sono vivo».
ALESSIA CANDITO,
La Repubblica, 27/3