Il provvedimento di grazia che restituisce la libertà a Patrick Zaki è una bellissima notizia. Innanzitutto per il giovane Patrick, evidentemente, e per le persone che ama e che gli sono state accanto in questo infinito e ingiusto calvario. E lo è anche per quella composita e trasversale opinione pubblica nel nostro Paese che, a Bologna e altrove, si è sentita vittima dello stesso intollerabile sopruso consumato su Zaki e per questo ha lottato e fatto sentire la sua voce per tenerne salda nell’agenda politica la vicenda umana, giudiziaria, politica. E tuttavia, come spesso è accaduto in questi anni, quando ci si deve misurare con l’Egitto di Abdul Fattah al Sisi e le sue mosse sghembe, i “doni” che arrivano dal Cairo meritano di essere letti non solo per ciò che sono ma anche per ciò che dichiarano e promettono di essere.
La grazia a Zaki – come raccontiamo oggi nelle pagine del nostro giornale – è un atto politico che parla all’Italia. Esattamente come politica era stata la sua illegittima cattura e l’altrettanto illegittima carcerazione e processo cui era stato strumentalmente sottoposto per farne un ostaggio nelle relazioni tra Roma e il Cairo, terremotate dal caso Regeni. La scommessa politica e diplomatica che cinicamente l’Egitto aveva fatto sul caso Zaki era stata quella di replicare emotivamente, in un osceno déjà vu, la crisi prodotta dal sequestro, tortura e omicidio di Giulio Regeni. In un gioco di specchi dalle premesse e i protagonisti sovrapponibili di cui solo l’esito sarebbe dovuto essere diverso. Per dimostrare all’Italia, “Paese amico”, che la morte dell’uno, Giulio, non aveva avuto l’imprinting politico che, al contrario, avrebbe assicurato la vita e la libertà al secondo, Patrick. Questo era il cuore dell’accordo chiuso già un anno fa dal governo Draghi con l’Egitto e questo ne è l’esito che viene oggi raccolto dal governo Meloni.