Augusto Cavadi
Adista Segni Nuovi n° 26 del 22/07/2023
Che cosa distingue le organizzazioni criminali “comuni” dalle associazioni di stampo mafioso? Alle prime interessa il denaro; alle seconde interessa il denaro e soprattutto il potere: per questo i criminali “generici” sono contro lo Stato, i mafiosi vogliono entrare nei gangli dello Stato. Questa differenza negli scopi cui si mira spiega una differenza anche dei mezzi adottati: il criminale-e-basta usa esclusivamente la violenza, il mafioso ricorre alla violenza solo come extrema ratio, quando non ottiene in altro modo il consenso, la complicità, l’obbedienza. Per ottenere tale consenso sono importanti vari linguaggi, tra cui il teologico-religioso: se il boss è un devoto di Cristo .della Madonna, dei santi; se celebra solennemente in chiesa le tappe fondamentali dell’esistenza propria e dei familiari; se si mostra munifico di aiuti economici alle parrocchie, alle congregazioni cattoliche, agli istituti confessionali di beneficenza... chi potrebbe mettere in dubbio l’insostituibile preziosità del suo ruolo sociale? Perché non gli si dovrebbe almeno altrettanta fiducia che nel sindaco, nel comandante della stazione dei carabinieri, nel parroco?
Questi dati spiegano perché solitamente le associazioni mafiose si caratterizzano per credenze, simboli, cerimonie, norme morali di origine religiosa (sia che vengano trasposte senza alterazioni sia che vengano modificate e adattate strumentalmente): ciò lo si riscontra non solo in aree tradizionalmente cattoliche, come il Meridione italiano, ma anche nel caso di “nuove” mafie come la mafia russa o la mafia nigeriana.
È arrivata come gradevole sorpresa, dunque, nel maggio del 2021 la notizia che il Vaticano aveva istituito un gruppo di lavoro sul tema dei rapporti fra Chiesa cattolica e organizzazioni mafiose, con particolare riferimento alla problematica concernente la “scomunica” canonica degli aderenti a tali organizzazioni criminali. Non meno sorprendente – ma questa volta non altrettanto gradevole – arriva in questi giorni, dal periodico francese La Croix, la notizia che quel gruppo di lavoro ha interrotto gli incontri (v. Adista Notizie n. 25/23, ndr). Non si sa se definitivamente o provvisoriamente. Perché questa decisione (peraltro, almeno sino a oggi, non resa pubblica)? È arrivato a conclusioni soddisfacenti (quali?) o, scavando nel terreno, si sono toccati fili sotterranei pericolosamente imbarazzanti? I collegamenti fra le cosche e gli ambienti clericali, nei Paesi a maggioranza cattolica, sono infatti ben noti e vicende come gli affari dello IOR o l’assassinio del banchiere Calvi a Londra hanno attestato che questi collegamenti sono arrivati a Roma, al centro del cattolicesimo (cfr. il convegno “Le due cupole” organizzato a Roma da “Adista” nel 2010 - v. Adista Notizie n. 73/10 e Adista Documenti n. 80/10).
Ma c’è qualcosa di più preoccupante, anche se la stampa e gli altri media si fermano alle notizie clamorose di cronaca nera. Ed è qualcosa che non riguarda solo la Chiesa cattolica, ma anche altre Chiese cristiane, perché coinvolge il patrimonio dottrinario comune per millenni a diverse confessioni religiose. Infatti alcuni di noi, studiando la questione, sono arrivati alla convinzione che fra il Dio dei mafiosi e il Dio dei cristianesimi tradizionali (peraltro ritenuti da molti gli unici cristianesimi accettabili) vi siano delle inquietanti analogie: in entrambe le prospettive, infatti, si pensa Dio come Essere che gestisce, arbitrariamente, la propria “onnipotenza”; che “punisce” con sofferenze di ogni genere i peccatori e i loro discendenti; che viene acquietato solo dalla morte in croce del suo stesso Figliolo e così via. Un Dio, insomma, più padrino che padre.
Tali analogie (su cui la riflessione “post-teistica” e “post-religionale” di questi ultimi anni può gettare fasci di luce istruttivi) si riversano, a cascata, nelle altrettanto inquietanti somiglianze fra l’organizzazione verticistica e gerarchica delle cosche e le strutture istituzionali di molte Chiese cristiane, ricalcate sul modello degli Imperi mondani (romano, russo o britannico che sia).
Se questi rapidi cenni sono veritieri, si intuisce perché Chiese come la cattolica romana possano avere serie perplessità e riserve nell’approfondire la tematica sia a livello di analisi che a livello di terapia. Infatti, per contribuire allo smantellamento delle associazioni mafiose, le Chiese dovrebbero rivedere la propria teologia e la propria catechesi; inoltre rifondarsi alla luce del modello evangelico in cui la fraternità, la condivisione, la solidarietà e la nonviolenza costituivano una novità radicale rispetto ai valori del patriarcato, della stratificazione sociale, dell’autoritarismo prevaricatore e delle intimidazioni repressive. Nell’attesa di saperne di più, dalla Germania arriva una notizia confortante: a Berlino si è svolta una conferenza di cinque giorni, preparata dalla commissione episcopale “Justitia et Pax”, dedicata a ripensare l’attenzione (sinora molto scarsa) della Chiesa tedesca ai casi di criminalità organizzata. L’idea è di affrontare in maniera “cattolica” (nell’accezione etimologica di “universale”) un fenomeno che, lungi dal restare periferico e locale, è da decenni ormai “globalizzato”. Simile strategia non può non essere apprezzata e condivisa da quanti siamo convinti che le Chiese (e anche le Comunità religiose non-cristiane sempre più presenti in Europa) dovrebbero occuparsi del sistema di dominio mafioso non solo a titolo di supporto dell’azione giudiziaria degli Stati, ma anche – e direi prima ancora – per destrutturare un modo di pensare e di vivere che impedisce la semina dell’annunzio evangelico come di altri messaggi religiosi improntati alla ricerca del Bene comune, della convivenza pacifica fra i popoli e della salvaguardia del cosmo.
Adista Segni Nuovi n° 26 del 22/07/2023
Che cosa distingue le organizzazioni criminali “comuni” dalle associazioni di stampo mafioso? Alle prime interessa il denaro; alle seconde interessa il denaro e soprattutto il potere: per questo i criminali “generici” sono contro lo Stato, i mafiosi vogliono entrare nei gangli dello Stato. Questa differenza negli scopi cui si mira spiega una differenza anche dei mezzi adottati: il criminale-e-basta usa esclusivamente la violenza, il mafioso ricorre alla violenza solo come extrema ratio, quando non ottiene in altro modo il consenso, la complicità, l’obbedienza. Per ottenere tale consenso sono importanti vari linguaggi, tra cui il teologico-religioso: se il boss è un devoto di Cristo .della Madonna, dei santi; se celebra solennemente in chiesa le tappe fondamentali dell’esistenza propria e dei familiari; se si mostra munifico di aiuti economici alle parrocchie, alle congregazioni cattoliche, agli istituti confessionali di beneficenza... chi potrebbe mettere in dubbio l’insostituibile preziosità del suo ruolo sociale? Perché non gli si dovrebbe almeno altrettanta fiducia che nel sindaco, nel comandante della stazione dei carabinieri, nel parroco?
Questi dati spiegano perché solitamente le associazioni mafiose si caratterizzano per credenze, simboli, cerimonie, norme morali di origine religiosa (sia che vengano trasposte senza alterazioni sia che vengano modificate e adattate strumentalmente): ciò lo si riscontra non solo in aree tradizionalmente cattoliche, come il Meridione italiano, ma anche nel caso di “nuove” mafie come la mafia russa o la mafia nigeriana.
È arrivata come gradevole sorpresa, dunque, nel maggio del 2021 la notizia che il Vaticano aveva istituito un gruppo di lavoro sul tema dei rapporti fra Chiesa cattolica e organizzazioni mafiose, con particolare riferimento alla problematica concernente la “scomunica” canonica degli aderenti a tali organizzazioni criminali. Non meno sorprendente – ma questa volta non altrettanto gradevole – arriva in questi giorni, dal periodico francese La Croix, la notizia che quel gruppo di lavoro ha interrotto gli incontri (v. Adista Notizie n. 25/23, ndr). Non si sa se definitivamente o provvisoriamente. Perché questa decisione (peraltro, almeno sino a oggi, non resa pubblica)? È arrivato a conclusioni soddisfacenti (quali?) o, scavando nel terreno, si sono toccati fili sotterranei pericolosamente imbarazzanti? I collegamenti fra le cosche e gli ambienti clericali, nei Paesi a maggioranza cattolica, sono infatti ben noti e vicende come gli affari dello IOR o l’assassinio del banchiere Calvi a Londra hanno attestato che questi collegamenti sono arrivati a Roma, al centro del cattolicesimo (cfr. il convegno “Le due cupole” organizzato a Roma da “Adista” nel 2010 - v. Adista Notizie n. 73/10 e Adista Documenti n. 80/10).
Ma c’è qualcosa di più preoccupante, anche se la stampa e gli altri media si fermano alle notizie clamorose di cronaca nera. Ed è qualcosa che non riguarda solo la Chiesa cattolica, ma anche altre Chiese cristiane, perché coinvolge il patrimonio dottrinario comune per millenni a diverse confessioni religiose. Infatti alcuni di noi, studiando la questione, sono arrivati alla convinzione che fra il Dio dei mafiosi e il Dio dei cristianesimi tradizionali (peraltro ritenuti da molti gli unici cristianesimi accettabili) vi siano delle inquietanti analogie: in entrambe le prospettive, infatti, si pensa Dio come Essere che gestisce, arbitrariamente, la propria “onnipotenza”; che “punisce” con sofferenze di ogni genere i peccatori e i loro discendenti; che viene acquietato solo dalla morte in croce del suo stesso Figliolo e così via. Un Dio, insomma, più padrino che padre.
Tali analogie (su cui la riflessione “post-teistica” e “post-religionale” di questi ultimi anni può gettare fasci di luce istruttivi) si riversano, a cascata, nelle altrettanto inquietanti somiglianze fra l’organizzazione verticistica e gerarchica delle cosche e le strutture istituzionali di molte Chiese cristiane, ricalcate sul modello degli Imperi mondani (romano, russo o britannico che sia).
Se questi rapidi cenni sono veritieri, si intuisce perché Chiese come la cattolica romana possano avere serie perplessità e riserve nell’approfondire la tematica sia a livello di analisi che a livello di terapia. Infatti, per contribuire allo smantellamento delle associazioni mafiose, le Chiese dovrebbero rivedere la propria teologia e la propria catechesi; inoltre rifondarsi alla luce del modello evangelico in cui la fraternità, la condivisione, la solidarietà e la nonviolenza costituivano una novità radicale rispetto ai valori del patriarcato, della stratificazione sociale, dell’autoritarismo prevaricatore e delle intimidazioni repressive. Nell’attesa di saperne di più, dalla Germania arriva una notizia confortante: a Berlino si è svolta una conferenza di cinque giorni, preparata dalla commissione episcopale “Justitia et Pax”, dedicata a ripensare l’attenzione (sinora molto scarsa) della Chiesa tedesca ai casi di criminalità organizzata. L’idea è di affrontare in maniera “cattolica” (nell’accezione etimologica di “universale”) un fenomeno che, lungi dal restare periferico e locale, è da decenni ormai “globalizzato”. Simile strategia non può non essere apprezzata e condivisa da quanti siamo convinti che le Chiese (e anche le Comunità religiose non-cristiane sempre più presenti in Europa) dovrebbero occuparsi del sistema di dominio mafioso non solo a titolo di supporto dell’azione giudiziaria degli Stati, ma anche – e direi prima ancora – per destrutturare un modo di pensare e di vivere che impedisce la semina dell’annunzio evangelico come di altri messaggi religiosi improntati alla ricerca del Bene comune, della convivenza pacifica fra i popoli e della salvaguardia del cosmo.