lunedì 25 marzo 2024

IL CARCERE

Il carcere è una struttura di peccato 

 24.03.24 - Daniela Musumeci Pressenza

 Si è tenuto lo scorso venerdì un incontro, al Laboratorio Andrea Ballarò di Palermo, dedicato ad Ilaria Salis, detenuta in Ungheria da più di un anno, ed agli attivisti di Antudo Sicilia, arrestati qualche giorno fa a Palermo e Messina, per una protesta davanti alla Leonardo spa del 2022 . Questa occasione ha permesso un approfondimento circa la situazione carceraria, italiana e non solo. L’avvocato di Ilaria Salis, Eugenio Losco, collegato da remoto, ha sottolineato come i capi d’imputazione ascrittile, per la contromanifestazione nel giorno dell’onore neonazista del 10 febbraio 2022 a Budapest, comporterebbero le stesse pene anche in Italia. Se non che le accuse di lesioni si sono nel frattempo trasformate in tentato omicidio e appartenenza a un’organizzazione criminale e la situazione nelle carceri ungheresi è ben più grave della nostra. Dopo giorni di detenzione in uno stanzino della questura, vestita solo di stracci sporchi e senza neppure assorbenti per il ciclo – come sappiamo da una lettera che la giovane donna è fortunosamente riuscita a far pervenire – Ilaria è stata detenuta in un regime simile al 41 bis: sette mesi con divieto assoluto di comunicazione, nessuna corrispondenza né giornali, colloqui dietro un vetro divisorio, un’ora d’aria in un cortile coperto da grate. Inoltre le galere magiare non rispettano gli standard europei in materia di spazi e di assistenza medica. Alla prima udienza, il 29 gennaio 2024, Ilaria è comparsa al guinzaglio, con catene alle caviglie e ai polsi, e così è rimasta per tre ore e mezza. Il processo è stato aggiornato al 28 marzo, quando si ascolteranno i primi testimoni e verrà reiterata la richiesta di scarcerazione o di arresti domiciliari, per altro difficilmente ottenibili. Charlie Barnao, docente dell’Università di Catanzaro, anch’egli on line, ha svolto quindi un interessantissimo excursus sulla storia della tortura. Adottata in età contemporanea come strumento di guerra per estorcere informazioni e/o annientare il nemico, è stata poi ampiamente utilizzata dal fascismo, così come da altri regimi totalitari e dittature, ma non soltanto da questi. Ha conosciuto una svolta nel 1963, con l’invenzione della cosiddetta “tortura senza contatto” descritta in un manuale della CIA: non si tratta di un supplizio fisico (che per altro si continua a praticare), ma di deprivazione sensoriale, disorientamento, dolore autoinflitto, umiliazione sessuale; ha una maggiore efficacia e soprattutto non lascia tracce sul corpo, si perpetra così in assenza di prove. Fu usata negli anni Settanta contro l’IRA in Gran Bretagna e in Germania contro la RAF (ad esempio, nella cella del braccio della morte su Ulriche Meinhof per 237 giorni); in Italia durante gli anni di piombo furono introdotte le carceri speciali, nel 1977, e si applicò tortura in occasione del sequestro Moro e del sequestro Dozier. Furono addestrate anche squadre specializzate in tortura, dalle percosse allo waterboarding, definito eufemisticamente “trattamento”. Le cose cambiarono a metà degli anni Ottanta, con la legge Gozzini del 1986, che si voleva di riforma e che individuava il nuovo nemico pubblico non più nel terrorista ma nel mafioso. Dopo le stragi del ’92 fu introdotto l’art. 41 bis o “carcere duro”. Detenuti per mafia risultarono torturati nelle galere di Pianosa e dell’Asinara, poi chiuse nel ’98. Fu introdotto l’ergastolo ostativo; si formarono corpi speciali per agire in regime di 41 bis. In occasione del G8 2001 di Genova, torture fisiche e senza contatto furono praticate nella caserma di Bolzaneto; altre sono state denunciate a Pagliarelli (Palermo) e Sulmona o in occasione di rivolte carcerarie. Oggi le torture senza contatto del 41 bis si infliggono soprattutto ai poveri, agli immigrati, ai tossicodipendenti, ai malati mentali; diventano norma e non fanno più notizia, anzi il 41 bis viene addirittura individuato come modello virtuoso. C’è una spinta al populismo giudiziario – osserva anche l’avvocato Giorgio Bisanti, responsabile di Antigone Sicilia – si invoca la forca giudiziaria e un inasprimento delle pene, specie contro i migranti, come mostrano i decreti Cutro. Intanto i suicidi in carcere dall’inizio di quest’anno sono già una quarantina, contando detenuti e personale penitenziario. Oltre il 40% degli internati è sotto trattamento sanitario psichiatrico, almeno in Sicilia, e sono spesso persone anche tossicodipendenti, per le quali occorrerebbero terapie particolari. Ma in tutta l’sola c’è un solo istituto preposto, con liste d’attesa lunghissime. Non ci sono psichiatri sufficienti, poiché dipendono dalle ASP e non dal Ministero della Giustizia e non sono dedicati alle case di pena, ma operano su tutto il territorio. Il carcere, insomma, è una struttura di peccato, per usare un’espressione mutuata dalla teologia – prosegue Bisanti. Dovrebbe interrompere le relazioni tra il condannato e le associazioni criminali e fornire occasioni di studio, di formazione, per un diverso progetto di vita. Invece le biblioteche, specie se collocate in ali lontane dalla cella, non sono fruibili. Occorre studiare sulla branda, mentre i compagni magari ascoltano musica neomelodica a tutto volume… In più la società fuori non sa nulla di quanto accade dentro; c’è un muro di silenzio attorno alle prigioni che associazioni come Antigone, Nessuno tocchi Caino o i garanti dei detenuti cercano di rompere. Antigone fa vigilanza democratica sugli istituti penitenziari: può accedervi, esplorarli, intervistare il personale che vi opera, ma non i prigionieri. Così realizza una mappatura, che funge da denuncia, ma anche da strumento di analisi per proposte alternative. Un’altra buona pratica è il gemellaggio fra classi parallele, dentro e fuori dalle case di pena. Gli studenti di scuole pubbliche incontrano giovani, ma anche adulti, impegnati a conquistarsi un diploma che significa un futuro dignitoso: dopo una comprensibile inziale diffidenza, sgorgano le domande, i racconti, gli scambi d’esperienze, fino al lavoro condiviso, sui libri ma pure negli orti o nei laboratori. E l’arricchimento è reciproco: i “ragazzi per bene” apprendono quanta crudeltà e quanto dolore può esserci al di là del loro piccolo mondo protetto e come sia giusto agire per ridurlo, se non eliminarlo.