L’”ARTIVISTA”,
TRACCE DI VITA IN PALESTINA PER LE STRADE DI NAPOLI
INCONTRI. Altri sguardi per Eduardo Castaldo, fotogiornalista e
poi impegnato sui set. Oggi felicemente street artist. Interventi diventati
virali sui social. A breve una mostra con un reportage inedito da quelle terre
del 2009
«Quando ho capito che potevo dare un senso a tutti
quegli anni che non fosse solo vedere le mie foto sulle copertine di Time o
Newsweek, sono letteralmente ringiovanito». A raccontarcelo, al telefono, è
Eduardo Castaldo. Napoletano classe 1977, ha già vissuto molte vite: anni di
successo da fotogiornalista, poi fotografo sui set – i suoi scatti da L’amica
geniale di Saverio Costanzo sono stati esposti più volte, ha poi lavorato con
Matteo Garrone, Alice Rohrwacher e molti altri – infine street artist o «artivista»,
come si definisce oggi. Trasformazioni in cui le esperienze personali sono
strettamente legate ad accadimenti più grandi. Per Castaldo la Palestina è
terra di elezione, ci ha vissuto più di quattro anni dalla fine del 2007,
«quando la mia ex compagna, madre di mio figlio, è andata lì per lavorare con
una Ong». Ha quindi documentato con i suoi scatti l’operazione Piombo Fuso,
prima di spostarsi al Cairo e di ritrovarsi nel mezzo della rivoluzione
egiziana: quelle foto piene di energia gli varranno il premio World Press Photo
nel 2012. Ma Castaldo ha iniziato a soffrire sempre più la contraddizione di
sentirsi al servizio di una narrazione distante, se non opposta, a quella
vissuta sul campo, e decide così di abbandonare il mestiere. «Per tempo non ho
toccato il mio archivio perché non mi sentivo legittimato ad utilizzare quelle
foto, a venire in Italia e a esporre quelle persone su un muro in una galleria,
magari vendendo i loro volti e sentendomi dire che sembrano dei Caravaggio».
Ecco però che nuove vie espressive sono pian piano emerse fino agli interventi
artistici odierni per le strade di Napoli in supporto alla Palestina, diventati
«virali» sui social. «Agire nella mia città non significa, per me, solo
resistere per loro che sono a Gaza; significa resistere per noi stessi, per i
nostri spazi di libertà» afferma Castaldo, che si prepara ad esporre un
reportage inedito realizzato in quelle terre nel 2009, tra un mese, ai
Magazzini fotografici.
Come hai iniziato a fare il reporter fotografico?
Ho comprato la mia prima macchina fotografica con
l’idea che sarebbe stato il primo passo per fare cinema, quella era la mia
ambizione all’epoca e in realtà lo è tutt’ora. Ma poi ho dovuto trasformare
questa passione in un lavoro quando stava per nascere mio figlio. Ho pensato di
realizzare un reportage sull’emergenza rifiuti a Napoli, quando era ancora una
notizia locale, e nel momento in cui una delegazione di giornalisti stranieri
arrivò in Campania io ero l’unico con un lavoro già pronto. Così mi sono trovato
a lavorare immediatamente coi giornali internazionali: la prima foto che ho
pubblicato in vita mia è uscita a mezza pagina su «Le Monde», e nel giro di una
settimana avevo già lavorato con «Der Spiegel» e «El Pais». Ho saltato tutta la
gavetta insomma. Ma ho sempre avuto grossi dubbi sul ruolo di fotogiornalista,
che è caratterizzato da enormi ambiguità: da un lato si vivono delle esperienze
molto forti e drammatiche, ma poi si lavora per giornali che forniscono una
rappresentazione che non corrisponde al proprio vissuto.Tutti ti guardano poi
come se fossi un eroe che rischia la vita per far emergere la verità, ma spesso
le persone fanno questo lavoro mosse da un’enorme dose di adrenalina, di
desiderio di successo, di sentimenti che poco hanno a che fare con l’etica.
Così ho deciso di abbandonare completamente il mestiere, e ne sono stato molto
felice.
Cosa pensi di come la guerra in Medio oriente viene
rappresentata oggi?
Credo che ormai la maschera sia calata: se accendiamo
la tv in un giorno in cui ci sono 100 civili uccisi, i nostri tg aprono con un
servizio che parla di antisemitismo, e poi in coda dicono magari che ci sono
state delle vittime a Gaza. Questo per me è manipolare la realtà, non si tratta
di avere una visione parziale, ma di coprire dei crimini in maniera lucida, e
di essere complici di un genocidio. I giornalisti sul campo vengono poi
declassati semplicemente perché palestinesi, come se solo gli occidentali
sapessero fotografare o raccontare questo conflitto.
I social media, in questo senso, permettono una
diffusione più diretta, anche se non mancano le criticità.
Ho iniziato a fare interventi di street art legati
alla Palestina molto tempo prima di questo conflitto, ma dopo il 7 ottobre sui
social c’è stata un’enorme censura nei miei confronti. Quando ho modificato la
pubblicità della Nike «Just do it», la foto aveva raggiunto in un giorno
milioni di utenti, numeri enormi, ma sono stato subito oscurato su TikTok.
Anche su Facebook i miei post vengono silenziati, al momento solo su Instagram
riesco ad avere una libertà molto parziale. Dico parziale perché molti degli
utenti che ricondividono i miei post vengono bloccati o minacciati di venire
bloccati, soprattutto nel mondo occidentale, mentre il social non interviene
con i tanti contatti arabi che mi seguono. Come per dire: tenetevi per voi il
vostro pianto, l’importante è che questo «morbo» non sconfini.
Questi ultimi tuoi interventi di street art ricordano
molto il détournement situazionista, in cui rielabori il senso di materiali di
propaganda o pubblicitari già esistenti.
È vero ma l’ho scoperto dopo, ho fatto queste opere
spontaneamente, non mi sono ispirato a loro. Il senso per me era quello di
modificare un linguaggio comune, così da arrivare soprattutto a chi non
condivide le mie idee con l’obiettivo di metterli un po’ in crisi. Che si
tratti di una foto strappata che rivela qualcosa sotto, o di incollare nuove
parti su un poster già esistente, aggiungo dei livelli di significato a quello
lineare iniziale, mostrandone il carattere fallace.
Sulla linea della street art, sei riuscito a
utilizzare in maniera nuova il tuo archivio fotografico.
Sì, è stato possibile per me rimettermi in contatto
con quei lavori quando ho ricontestualizzato le foto. Faccio un esempio: gli
scatti della soppressa rivoluzione egiziana, le ho esposte tutte accatastate a
terra, coperte con un telo semitrasparente, così da essere visibili solo
parzialmente. Era una sorta di messa in scena della repressione, e di come i
movimenti fossero stati «messi in soffitta». Questa per me è stata una
rivelazione, perché ho capito che c’erano dei modi che che mi permettevano di restituire
alle foto le mie esperienze. A Gaza, dopo i bombardamenti, le persone si
lasciano fotografare nella speranza che tu possa dare voce alla loro
sofferenza, quindi è come se si facesse loro una promessa. Nel momento in cui
sento di rispettarla, allora mi sento anche in diritto di utilizzare quegli
scatti. I primi interventi di street art sono stati infatti delle foto
trasformate in stencil e modificate, come quella della signora che butta un
secchio d’acqua dalla finestra sui soldati israeliani che salgono su una scala.
Quelle erano foto scattate durante un ingresso in un campo profughi, in cui i
soldati salivano sui muri.
Questi interventi li fai a Napoli, la tua città, dove
sei tornato a vivere. Che valore ha per te?
È fondamentale, d’altronde rappresentare Napoli come
una città antisionista significa continuare un discorso che non nasce certo da
me, i napoletani hanno sempre sostenuto la causa palestinese. La colonizzazione
non riguarda solo i territori ma anche il pensiero e il linguaggio, ed è un
processo che avviene anche qui.
Lucrezia Ercolani (da “Il Manifesto” di domenica 21/4/24, p.11)