“Dalla parte di Abele”. Documento di un gruppo di evangelici italiani
Di fronte alla
drammatica situazione in Medio Oriente, ci siamo incontrati come gruppo di
evangelici italiani, appartenenti a diverse denominazioni protestanti, per
riflettere insieme e intervenire pubblicamente.
Quanto sta accadendo a Gaza, in questi mesi e in queste ore, è di una gravità
inaudita. La popolazione civile disarmata, in gran parte composta da bambini,
donne e anziani, è fatta oggetto di strage da parte dell’esercito israeliano
armato fino ai denti, con armi di ultima generazione di provenienza
occidentale. In pochi mesi sono morti, a oggi secondo dati Onu, 35.000
palestinesi, di cui 14.500 bambini e 9.500 donne. I feriti sono 78.000. La
popolazione è allo stremo, privata – a causa del blocco imposto da Israele –
persino dei soccorsi umanitari inviati da svariati Paesi per sventare carestia
ed epidemie. Così facendo l’odio sistematico cresce e si moltiplica fra chi
sopravvive. A meno che, nell’intenzione del governo israeliano, non ci sia
l’intento di una soluzione finale senza superstiti.
Proviamo orrore per la strage di Hamas del 7 ottobre, per la violenza cieca
messa in atto contro la popolazione inerme. L’azione scellerata ha contribuito
a fornire al governo di Netanyahu l’occasione per scatenare un’offensiva
militare che potrebbe configurarsi come crimine di guerra, aggravando la
condizione di minorità e di apartheid in cui versano i palestinesi. Israele è
uno Stato coloniale instaurato dopo il 1967 in Cisgiordania e a Gaza. Numerose
risoluzioni Onu riconoscono ufficialmente Israele Stato occupante, poiché tiene
sottomesso un popolo, quello palestinese, che da allora vive sotto occupazione
militare e reagisce conducendo una lotta considerata dal diritto internazionale
lotta di liberazione. Hamas, il 7 ottobre, ha oscurato questo aspetto fondamentale.
L’azione militare in corso a Gaza, ma anche in Cisgiordania, è sproporzionata,
crudele, disperata. Sproporzionata per il numero di vittime e per le
distruzioni che sta producendo. Crudele perché colpisce persone disarmate
e vulnerabili. Disperata perché mette in pericolo anche coloro che sono
ostaggio di Hamas e con questa politica proietta un’ombra di morte sul futuro
di entrambi i popoli.
“Scorra il diritto come acqua e la giustizia come un torrente perenne”, dice il
profeta Amos, (5,24) a un popolo piegato all’idolatria. Questa parola vale per
tutti, anche per Israele e per gli Stati amici. Senza un riconoscimento dei
propri torti e delle ingiustizie commesse non può esservi un futuro, né
un’ipotesi di pacifica convivenza.
Molto lontane, invece, appaiono le prese di posizione provenienti dal mondo
protestante europeo che continua a considerare Israele una vittima circondata
da vicini che non avrebbero altro scopo se non quello di cancellarlo dalla
regione. Come credenti evangelici siamo estremamente delusi e scandalizzati dai
silenzi, dalle omissioni, dagli equilibrismi che impediscono alle nostre
strutture ecclesiastiche e ai nostri leader di nominare esplicitamente quel che
oggi accade a Gaza. Le prese di posizione sono timide, arretrate, ambigue. Nel
documento della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, il conflitto
sembra iniziato il 7 ottobre e non quasi un secolo fa. Nessun riferimento alla
politica di colonizzazione di Israele in Cisgiordania che ha reso impraticabile
la soluzione dei due Stati, nessun riferimento alle violenze dei coloni, alla
costruzione di muri, alla distruzione di abitazioni e coltivazioni dei
contadini palestinesi obbligati a lasciare il Paese per accamparsi negli Stati
vicini.
L’imparzialità in questi giorni di strage non è più possibile. L’equidistanza
avalla le scelte del più forte. Al contrario, proprio in nome di un’amicizia
con gli ebrei e con Israele, maturata nei decenni nei quali abbiamo fatto i
conti con il nostro grave peccato di antigiudaismo sfociato in antisemitismo,
oggi dobbiamo dire con chiarezza i nostri sì e i nostri no, come ci ha
insegnato Gesù, perché il di più viene dal Nemico. (Matteo 5,17).
Cosa ci impedisce di dire sì sì, no no come ci viene comandato? Cosa ci
impedisce di chiamare strage una strage e massacro un massacro? Cosa ci fa
venire meno al nostro dovere di verità e profezia davanti a uno dei più orrendi
avvenimenti degli ultimi decenni? Non possiamo avallare questo clima di “guerra
inevitabile” che si sta diffondendo e penetra i nostri discorsi, inducendoci a
rinnegare la nostra cultura di pace che implica, sì, anche gesti di
disobbedienza.
Come chiese abbiamo una lunga tradizione di pratiche nonviolente e di teologie
di stampo pacifista. Basti pensare alla teologia dei quaccheri/mennoniti, al
pastore battista Martin Luther King, all’attivista e teologa tedesca Dorothee
Soelle. Senza dimenticare il coraggio di Nelson Mandela (metodista) e la lotta
per la giustizia e contro l’apartheid di Desmond Tutu (anglicano). Dare valore
alla loro eredità significa riaffermare con forza che non c’è pace senza
giustizia.
E come scordare la decisa presa di posizione di Tullio Vinay, oggi profetica,
quando, nel 1982, insignito della Stella dei Giusti, dice all’ambasciatore
israeliano: “La mia politica, anche ora al Senato, vuol essere mossa dall’amore
per gli altri ed essere perciò soprattutto difesa dei deboli e degli oppressi.
In questa occasione, perciò, signor ambasciatore, mi trova in un campo diverso.
Per la stessa ragione per la quale sono stato, anche con gravi rischi, vicino
alle sofferenze degli ebrei, non posso ignorare ora quelle dei palestinesi. Non
si stupisca. Sempre dalla parte di Abele”.
Cosa impedisce ai cristiani evangelici di oggi, di affermare con la stessa
chiarezza che anche noi non ci lasceremo trovare da un’altra parte che non sia
quella di Abele?
Il cessate il fuoco, il diritto alla convivenza dei due popoli, sono la
condizione per un percorso di riconciliazione. Pronunciare questa parola oggi
appare assurdo e offensivo per chi piange i propri morti, ma come seguaci di
Gesù Cristo non ne abbiamo un’altra. La riconciliazione è un difficile percorso
che deve fare i conti con la memoria e con i lutti di entrambe le parti. Ci
sono associazioni e movimenti in Israele e in Palestina in cui vittime dell’una
e dell’altra parte si incontrano nel loro comune dolore per farsi loro stessi
principio di una nuova storia.
Come credenti siamo chiamati ad annunciare verità e giustizia, a difendere il
diritto della vedova, dell’orfano e dello straniero. Guardiamo col cuore pieno
di angoscia ai rigurgiti di antisemitismo in Occidente, ma guardiamo con
preoccupazione anche a forme di sionismo cristiano che promuovono il dominio di
Israele su tutta la Palestina storica a motivo delle antiche promesse di
elezione. Gesù Cristo ci insegna che eletto è colui che si pone ai piedi
dell’ultimo per servirlo e per restare “prigionieri della speranza” (Zaccaria
9,12).
Massimo Aprile, Eliana Bouchard, Simone
Caccamo, Rosario Confessore, Marco Davite, Piera Egidi, Hilda Girardet, Luciano
Griso, Anna Maffei, Dario Monaco, Eric Noffke, Nicola Pantaleo
Enrico Parizzi, Bruna Peyrot, Gregorio Plescan, Davide Rosso, Erica Sfredda, Pasquale
Spinella, Letizia Tomassone, Gianna Urizio, Aldo Visco Gilardi.
da “Pressenza”, 24-05-24