Il paese reale e quello di “Giorgia”
A
sentire Giorgia Meloni, il nostro Paese sarebbe quasi un’eccezione, un’isola
felice, nel panorama incerto e preoccupante dell’economia europea. Occupazione
che cresce, PIL a gonfie vele, borsa che macina affari. Ma è proprio così?
Partiamo dalla crescita. Gli ultimi dati
dell’Ocse dicono che il PIL crescerà quest’anno non più dello 0,7%. Meno di
quanto il Governo ha stimato nel Def (1%), più o meno in linea con la tendenza
europea (solo la Spagna va meglio, con un sorprendente 1,8%). Un quadro
stagnante, quindi, al quale certamente non si può brindare, con rischi sempre
dietro l’angolo, stante la particolare situazione internazionale, segnata da
allarmanti tensioni geopolitiche (l’ipotesi di un’accelerazione nel 2025 deve
fare i conti col corso della guerra). La stessa organizzazione di Parigi, poi,
mette in guardia il Governo dai rischi che potrebbero derivare da un
deterioramento ulteriore dei conti pubblici, il cui destino è legato
indissolubilmente all’andamento dell’economia. Il debito è dato in crescita da
qui ai prossimi due anni, fino al 140% del prodotto lordo (si capisce che la
bassa crescita non aiuta la sostenibilità del debito), con un deficit che
difficilmente scenderà sotto il 4%. Ciò, mentre il nuovo Patto di stabilità impone
regole stringenti per il rientro entro i parametri stabiliti: un punto di PIL
all’anno per il debito, mezzo punto per il deficit, che può scendere allo 0,25%
nel caso di piani di aggiustamento settennali. Per l’Italia, tutto questo
comporterà una cura dimagrante stimata tra i 13 e i 25 miliardi di euro annui
(la stima è della Confederazione europea dei sindacati, Ces).
Meno sanità, meno istruzione, meno investimenti.
Ma Giorgia Meloni, che a Bruxelles ha chinato il capo dinanzi alle pretese dei
“rigoristi” nordici, ha valutato altresì l’impatto di questi tagli draconiani
alla spesa pubblica sull’economia? Uno studio di Confindustria dimostra che
dopo due anni, il piano di aggiustamento dei conti pubblici, determinerebbe una
contrazione dell’economia di almeno lo 0,6% e che un ritorno alla situazione
base, ovvero al punto di partenza, si avrebbe solo nel 2031. Paradossalmente,
ne risentirebbero gli stessi conti pubblici da correggere, essendo la loro
sostenibilità, come si è detto, valutata in rapporto al PIL (Confindustria su
questo punto è più ottimista).
Più complessa è la situazione per quanto riguarda il lavoro.
I numeri assoluti dicono che gli occupati continuano a crescere e che cala il
tasso di disoccupazione (a marzo 7,2% quello totale, 20,1% quello giovanile, ai
minimi, rispettivamente, dal 2008 e dal 2007), a fronte di un aumento dei
cosiddetti “inattivi” (la percentuale di inattivi in Italia è la più alta
dell’eurozona, sopra la soglia del 30%), quelli che il lavoro non ce l’hanno e
nemmeno lo cercano. Ma che occupazione è? Negli ultimi anni, e con più
incidenza dalla fine della pandemia da Covid-19, la crescita dell’occupazione è
andata di pari passo con l’aumento della precarietà. Come rileva uno studio
recente della Cgil, il contributo alla crescita dell’occupazione l’hanno dato
per più della metà i contratti precari, da quindici anni a questa parte.
Apprendistato, stagionali, somministrati, tempi determinati, intermittenti e
prestazioni occasionali. Un esercito, ormai, di quasi tre milioni di persone.
Veniamo alla borsa, che gli esponenti del
governo, per descrivere il paese di Bengodi, spesso tirano fuori nelle loro
apparizioni televisive. In effetti, l’anno trascorso è stato un anno d’oro per
Piazza Affari. Ma non è una questione di fiducia dei mercati nel nostro Paese.
Né un affare del popolo. Sono state le banche che hanno tirato su i listini,
grazie al rialzo dei tassi di interesse da parte della Bce e ad operazioni di share buyback (con la liquidità a
disposizione le banche hanno comprato le loro stesse azioni sul mercato,
facendone salire il prezzo). I cosiddetti extraprofitti, che il Governo aveva
promesso di tassare, salvo rimangiarsi la parola, dando la possibilità agli istituti
di credito di trasformare la tassa in aumenti di capitale (più soldi per nuove
avventure speculative). Parliamo di cifre stratosferiche (oltre 43 miliardi di
euro), di azioni che in alcuni casi si sono rivalutate di oltre l’80%.
Su tutto, però, svetta il problema della povertà.
L’Istat conta che i poveri assoluti sono 5
milioni e 752 mila (il riferimento è al 2023), in aumento rispetto
all’anno precedente di 78 mila unità. Di questi, 2,8 milioni sono in condizioni
di grave deprivazione. E non finisce qui. Perché le
persone cosiddette “in difficoltà economica” sono ormai più di tredici milioni.
C’entra la crescita del lavoro povero, ma anche la cancellazione del reddito di
cittadinanza, i cui effetti nefasti sulle fasce più deboli della società non
sono certo stati mitigati dall’assegno di inclusione del Governo, bocciato
dalla stessa Commissione europea.
Giorgia
Meloni, alla convention del suo partito a Pescara, annunciando la sua
candidatura alle europee, ha detto di essere “fiera” delle sue origini
popolari. Affermazione che stride con le scelte del suo Governo, tutte – o
quasi – orientate alla tutela della minoranza ricca della popolazione. In
compenso, nondimeno, il popolo potrà scrivere sulla scheda elettorale
semplicemente “Giorgia”.
Luigi Pandolfi
(da https://volerelaluna.it ;14-05-2024)