La Corte penale internazionale, i crimini di Netanyahu,
l’ipocrisia dell’Occidente
«Gli
Stati parti del presente Statuto, consapevoli che tutti i popoli sono uniti da
stretti vincoli e che le loro culture formano un patrimonio da tutti condiviso,
un delicato mosaico che rischia in ogni momento di essere distrutto;
Memori che nel corso di questo secolo, milioni di bambini, donne e uomini sono stati vittime di atrocità inimmaginabili che turbano profondamente la coscienza dell’umanità;
Riconoscendo che crimini di tale gravità minacciano la pace, la sicurezza ed il benessere del mondo;Così recita il preambolo dello Statuto che istituisce la Corte penale internazionale stipulato a Roma il 17 luglio 1998, entrato in vigore il 1° luglio 2002. La Corte penale internazionale è l’unica istituzione di garanzia volta a rafforzare i precetti del diritto internazionale che bandiscono il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità (e dopo il 2010 anche il crimine di aggressione, ove ricorrano determinate condizioni), con la missione di intervenire laddove gli Stati nazionali non siano in grado di assicurare la repressione di tali crimini.
A
differenza della Corte di Norimberga, la Cpi non agisce nell’interesse dei
vincitori ma è strumento – almeno astrattamente – della Comunità
internazionale, rappresentata dai 123 Stati che hanno sottoscritto il suo
Statuto. Proprio per questo suo carattere, svincolato dalla forza, l’azione
della Cpi deve confrontarsi con difficoltà di ogni tipo quando si trova a
giudicare crimini commessi da agenti di Stati che non sono stati sconfitti e
generalmente godono di buona salute. È sintomatico
che tre dei cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza (Usa, Cina e Russia)
non abbiano aderito alla giurisdizione della Corte penale
internazionale, assieme ad altri Stati più adusi a commettere crimini
internazionali come Turchia, Israele, Arabia Saudita, Siria.
Se
la Cina si è limitata a non aderire, gli
Stati Uniti, fin dall’inizio, hanno manifestato un’aperta ostilità al lavoro
della Corte, che hanno cercato di ostacolare in ogni modo. In questo quadro
si devono ricordare i numerosi accordi bilaterali stretti dagli Usa con vari
Stati che, per fatti potenzialmente rientranti nella competenza della Cpi,
fanno divieto di consegnare alla Corte un cittadino americano ricercato o
indagato da questa, prevedendo l’esclusiva competenza dello Stato di
cittadinanza. A siffatta prassi veniva fornita una base legislativa di diritto
interno, attraverso una legge del Congresso americano che autorizza il
Presidente degli Stati Uniti a utilizzare ogni mezzo utile per ottenere il
rilascio dei cittadini americani che fossero detenuti a richiesta della Cpi
(conosciuta come legge che autorizza l’invasione dell’Aia). Infine, nell’era
Trump (settembre 2020) si arrivò alle minacce e alle sanzioni personali nei
confronti degli organi della Corte, la Procuratrice dell’epoca Fatou Bensouda e
il capo della giurisdizione del tribunale Phakiso Mochochoko, per impedire che
venisse portata avanti l’inchiesta avviata dalla Corte sui crimini di guerra
commessi dagli Usa in Afganistan. Le sanzioni imposte da Trump (e poi
tardivamente revocate da Biden) trovarono l’appoggio entusiasta del primo
Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che si affrettò a congratularsi con
Trump per la decisione di imporre sanzioni alla «corrotta e faziosa Corte
penale internazionale», definendola «una Corte politicizzata ossessionata dal
condurre caccia alle streghe contro Israele, gli Stati Uniti e altre democrazie
che rispettano i diritti umani». Netanyahu accusò la Corte di aver inventato
«accuse stravaganti», come che «gli ebrei che vivono nella loro patria storica
costituiscono un crimine di guerra». L’avversione di Netanyahu all’esistenza
stessa di una giurisdizione internazionale con la missione di prevenire e
reprimere «i delitti più gravi che riguardano l’insieme della comunità
internazionale», naturalmente aveva fondate ragioni dal suo punto di vista, dal
momento che Israele, nella sua condotta
politica e militare, non ha mai accettato di avere le mani legate dai vincoli
del diritto.
Orbene,
dopo un lungo silenzio durante il quale è sorto il dubbio sull’esistenza stessa
del diritto internazionale e sull’utilità di una giurisdizione concepita per
contrastare quei crimini che offendono la coscienza morale dell’umanità, la Corte penale internazionale ha battuto un colpo.
Il 20 maggio l’ufficio della Procura ha reso nota la richiesta di emissione di
un mandato di cattura per tre leader di Hamas (per i fatti del 7 ottobre) e per
due dei massimi dirigenti politici di Israele, il primo Ministro Netanyahu e il
Ministro della Difesa Gallant. Non è stato un percorso facile a causa delle
intimidazioni che sono state esercitate dagli “amici” di Israele, che hanno
costretto il Procuratore, l’inglese Karim Khan, a mandare questo inusuale
avvertimento: «tutti i tentativi di ostacolare, intimidire o influenzare
impropriamente i funzionari di questa Corte devono cessare immediatamente. Il
mio Ufficio non esiterà ad agire ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di
Roma se tale condotta dovesse continuare».
La procura ha chiesto il mandato di cattura per Netanyahu e
Gallant contestando sia crimini di guerra, sia crimini contro l’umanità.
L’atto di accusa evidenzia che le prove raccolte:
«dimostrano
che Israele ha intenzionalmente e
sistematicamente privato la popolazione civile in tutte le zone di Gaza di beni
indispensabili alla sopravvivenza umana. Ciò è avvenuto attraverso
l’imposizione di un assedio totale su Gaza che ha comportato la chiusura
completa dei tre valichi di frontiera, Rafah, Kerem Shalom ed Erez, a partire
dall’8 ottobre 2023 per periodi prolungati e poi limitando arbitrariamente il
trasferimento di rifornimenti essenziali – compresi cibo e medicine –
attraverso i valichi di frontiera dopo la loro riapertura. L’assedio ha incluso
anche l’interruzione delle condutture idriche transfrontaliere da Israele a
Gaza – la principale fonte di acqua potabile per i gazawi – per un periodo
prolungato a partire dal 9 ottobre 2023, e l’interruzione e l’impedimento delle
forniture di elettricità almeno dall’8 ottobre 2023 fino ad oggi. Ciò è avvenuto insieme ad altri attacchi contro i
civili, compresi quelli che facevano la fila per il cibo; all’ostruzione della
consegna degli aiuti da parte delle agenzie umanitarie; agli attacchi e alle
uccisioni di operatori umanitari, che hanno costretto molte agenzie a cessare o
limitare le loro operazioni a Gaza. […] Questi atti sono stati commessi
come parte di un piano comune per usare la
fame come metodo di guerra e altri atti di violenza contro la
popolazione civile di Gaza come mezzo per […] punire collettivamente la
popolazione civile di Gaza, percepita come una minaccia per Israele. Gli
effetti dell’uso della fame come metodo di guerra, insieme ad altri attacchi e
punizioni collettive contro la popolazione civile di Gaza, sono acuti, visibili
e ampiamente noti. […] Tra questi, la malnutrizione, la disidratazione, le profonde sofferenze e il crescente numero di morti
tra la popolazione palestinese, tra cui neonati, altri bambini e donne.
Israele, come tutti gli Stati, ha il diritto di agire per difendere la propria
popolazione, ma, quali che siano gli obiettivi militari – conclude il
Procuratore – i mezzi scelti da Israele –
ovvero causare intenzionalmente morte, fame, grandi sofferenze e gravi lesioni
al corpo o alla salute della popolazione civile – sono criminali».
Di
fronte a questa incriminazione per fatti noti a tutti e puntualmente denunciati
dalle Agenzie dell’ONU e dal suo Segretario Generale, crolla quel muro di
opacità con il quale i leader dei principali Paesi dell’Occidente hanno cercato
fin qui di mascherare l’oscenità del martirio di un’intera popolazione
perseguito con accanimento da Israele nella convinzione della sua più totale
impunità. Abbiamo bombardato di sanzioni la Russia, rivendicando – per bocca di
Stoltenberg – un ordine internazionale “fondato sulle regole”, mentre siamo
rimasti muti e impassibili quando Israele violava tutte le regole del diritto
bellico infliggendo sofferenze inenarrabili alla stremata popolazione di Gaza.
Come
dimenticare la falange di scudi sollevata dalla politica e dai principali
organi di stampa per nascondere all’opinione pubblica l’orrore che si stava
consumando sull’altra sponda del Mediterraneo? Come dimenticare l’abbraccio
della Meloni a Netanyahu il 21 ottobre scorso, e il suo incondizionato sostegno
per l’operazione “spade di ferro”, pur avendo il premier israeliano fatto
esplicito riferimento – per chiarire le sue intenzioni – allo sterminio degli
Amaleciti raccontato nella Bibbia? Il mandato di arresto per Netanyahu e il suo
Ministro della Difesa Gallant, spiazza tutti i governi europei che, come quello
italiano, hanno coperto i crimini di Israele e hanno cercato di silenziare
tutte le proteste con i manganelli, trasformandosi negli avvocati difensori di
Israele nel proscenio internazionale.
Ora
non c’è più tempo da perdere, le indagini della Corte penale internazionale
certificano l’esistenza di quelle atrocità inimmaginabili che la politica ha
finto di non vedere. Se non vogliamo diventare complici, non possiamo più
tacere. L’incriminazione di Netanyahu ci avverte che i crimini contestati sono
ancora in corso. È dovere della Comunità internazionale porre fine a questo
scempio. Bisogna esigere il cessate il
fuoco immediato a pena di sanzioni adeguate. L’occupazione della Striscia
di Gaza è illegale, dopo i disastri che ha combinato non si può consentire ad
Israele di restare arbitro della vita e della morte degli abitanti di Gaza. Deve intervenire una missione dell’ONU per separare
i contendenti e garantire la sopravvivenza della popolazione di Gaza.
Domenico Gallo (da volerelaluna.it, 22-05-2024