lunedì 27 maggio 2024

 

La Corte penale internazionale, i crimini di Netanyahu, l’ipocrisia dell’Occidente

«Gli Stati parti del presente Statuto, consapevoli che tutti i popoli sono uniti da stretti vincoli e che le loro culture formano un patrimonio da tutti condiviso, un delicato mosaico che rischia in ogni momento di essere distrutto;

Memori che nel corso di questo secolo, milioni di bambini, donne e uomini sono stati vittime di atrocità inimmaginabili che turbano profondamente la coscienza dell’umanità;

    Riconoscendo che crimini di tale gravità minacciano la pace, la sicurezza ed il benessere del mondo;
    Affermando che i delitti più gravi che riguardano l’insieme della comunità internazionale non possono rimanere impuniti…»

Così recita il preambolo dello Statuto che istituisce la Corte penale internazionale stipulato a Roma il 17 luglio 1998, entrato in vigore il 1° luglio 2002. La Corte penale internazionale è l’unica istituzione di garanzia volta a rafforzare i precetti del diritto internazionale che bandiscono il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità (e dopo il 2010 anche il crimine di aggressione, ove ricorrano determinate condizioni), con la missione di intervenire laddove gli Stati nazionali non siano in grado di assicurare la repressione di tali crimini.

A differenza della Corte di Norimberga, la Cpi non agisce nell’interesse dei vincitori ma è strumento – almeno astrattamente – della Comunità internazionale, rappresentata dai 123 Stati che hanno sottoscritto il suo Statuto. Proprio per questo suo carattere, svincolato dalla forza, l’azione della Cpi deve confrontarsi con difficoltà di ogni tipo quando si trova a giudicare crimini commessi da agenti di Stati che non sono stati sconfitti e generalmente godono di buona salute. È sintomatico che tre dei cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza (Usa, Cina e Russia) non abbiano aderito alla giurisdizione della Corte penale internazionale, assieme ad altri Stati più adusi a commettere crimini internazionali come Turchia, Israele, Arabia Saudita, Siria.

Se la Cina si è limitata a non aderire, gli Stati Uniti, fin dall’inizio, hanno manifestato un’aperta ostilità al lavoro della Corte, che hanno cercato di ostacolare in ogni modo. In questo quadro si devono ricordare i numerosi accordi bilaterali stretti dagli Usa con vari Stati che, per fatti potenzialmente rientranti nella competenza della Cpi, fanno divieto di consegnare alla Corte un cittadino americano ricercato o indagato da questa, prevedendo l’esclusiva competenza dello Stato di cittadinanza. A siffatta prassi veniva fornita una base legislativa di diritto interno, attraverso una legge del Congresso americano che autorizza il Presidente degli Stati Uniti a utilizzare ogni mezzo utile per ottenere il rilascio dei cittadini americani che fossero detenuti a richiesta della Cpi (conosciuta come legge che autorizza l’invasione dell’Aia). Infine, nell’era Trump (settembre 2020) si arrivò alle minacce e alle sanzioni personali nei confronti degli organi della Corte, la Procuratrice dell’epoca Fatou Bensouda e il capo della giurisdizione del tribunale Phakiso Mochochoko, per impedire che venisse portata avanti l’inchiesta avviata dalla Corte sui crimini di guerra commessi dagli Usa in Afganistan. Le sanzioni imposte da Trump (e poi tardivamente revocate da Biden) trovarono l’appoggio entusiasta del primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che si affrettò a congratularsi con Trump per la decisione di imporre sanzioni alla «corrotta e faziosa Corte penale internazionale», definendola «una Corte politicizzata ossessionata dal condurre caccia alle streghe contro Israele, gli Stati Uniti e altre democrazie che rispettano i diritti umani». Netanyahu accusò la Corte di aver inventato «accuse stravaganti», come che «gli ebrei che vivono nella loro patria storica costituiscono un crimine di guerra». L’avversione di Netanyahu all’esistenza stessa di una giurisdizione internazionale con la missione di prevenire e reprimere «i delitti più gravi che riguardano l’insieme della comunità internazionale», naturalmente aveva fondate ragioni dal suo punto di vista, dal momento che Israele, nella sua condotta politica e militare, non ha mai accettato di avere le mani legate dai vincoli del diritto.

Orbene, dopo un lungo silenzio durante il quale è sorto il dubbio sull’esistenza stessa del diritto internazionale e sull’utilità di una giurisdizione concepita per contrastare quei crimini che offendono la coscienza morale dell’umanità, la Corte penale internazionale ha battuto un colpo. Il 20 maggio l’ufficio della Procura ha reso nota la richiesta di emissione di un mandato di cattura per tre leader di Hamas (per i fatti del 7 ottobre) e per due dei massimi dirigenti politici di Israele, il primo Ministro Netanyahu e il Ministro della Difesa Gallant. Non è stato un percorso facile a causa delle intimidazioni che sono state esercitate dagli “amici” di Israele, che hanno costretto il Procuratore, l’inglese Karim Khan, a mandare questo inusuale avvertimento: «tutti i tentativi di ostacolare, intimidire o influenzare impropriamente i funzionari di questa Corte devono cessare immediatamente. Il mio Ufficio non esiterà ad agire ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma se tale condotta dovesse continuare».

La procura ha chiesto il mandato di cattura per Netanyahu e Gallant contestando sia crimini di guerra, sia crimini contro l’umanità. L’atto di accusa evidenzia che le prove raccolte:

«dimostrano che Israele ha intenzionalmente e sistematicamente privato la popolazione civile in tutte le zone di Gaza di beni indispensabili alla sopravvivenza umana. Ciò è avvenuto attraverso l’imposizione di un assedio totale su Gaza che ha comportato la chiusura completa dei tre valichi di frontiera, Rafah, Kerem Shalom ed Erez, a partire dall’8 ottobre 2023 per periodi prolungati e poi limitando arbitrariamente il trasferimento di rifornimenti essenziali – compresi cibo e medicine – attraverso i valichi di frontiera dopo la loro riapertura. L’assedio ha incluso anche l’interruzione delle condutture idriche transfrontaliere da Israele a Gaza – la principale fonte di acqua potabile per i gazawi – per un periodo prolungato a partire dal 9 ottobre 2023, e l’interruzione e l’impedimento delle forniture di elettricità almeno dall’8 ottobre 2023 fino ad oggi. Ciò è avvenuto insieme ad altri attacchi contro i civili, compresi quelli che facevano la fila per il cibo; all’ostruzione della consegna degli aiuti da parte delle agenzie umanitarie; agli attacchi e alle uccisioni di operatori umanitari, che hanno costretto molte agenzie a cessare o limitare le loro operazioni a Gaza. […] Questi atti sono stati commessi come parte di un piano comune per usare la fame come metodo di guerra e altri atti di violenza contro la popolazione civile di Gaza come mezzo per […] punire collettivamente la popolazione civile di Gaza, percepita come una minaccia per Israele. Gli effetti dell’uso della fame come metodo di guerra, insieme ad altri attacchi e punizioni collettive contro la popolazione civile di Gaza, sono acuti, visibili e ampiamente noti. […] Tra questi, la malnutrizione, la disidratazione, le profonde sofferenze e il crescente numero di morti tra la popolazione palestinese, tra cui neonati, altri bambini e donne. Israele, come tutti gli Stati, ha il diritto di agire per difendere la propria popolazione, ma, quali che siano gli obiettivi militari – conclude il Procuratore – i mezzi scelti da Israele – ovvero causare intenzionalmente morte, fame, grandi sofferenze e gravi lesioni al corpo o alla salute della popolazione civile – sono criminali».

Di fronte a questa incriminazione per fatti noti a tutti e puntualmente denunciati dalle Agenzie dell’ONU e dal suo Segretario Generale, crolla quel muro di opacità con il quale i leader dei principali Paesi dell’Occidente hanno cercato fin qui di mascherare l’oscenità del martirio di un’intera popolazione perseguito con accanimento da Israele nella convinzione della sua più totale impunità. Abbiamo bombardato di sanzioni la Russia, rivendicando – per bocca di Stoltenberg – un ordine internazionale “fondato sulle regole”, mentre siamo rimasti muti e impassibili quando Israele violava tutte le regole del diritto bellico infliggendo sofferenze inenarrabili alla stremata popolazione di Gaza.

Come dimenticare la falange di scudi sollevata dalla politica e dai principali organi di stampa per nascondere all’opinione pubblica l’orrore che si stava consumando sull’altra sponda del Mediterraneo? Come dimenticare l’abbraccio della Meloni a Netanyahu il 21 ottobre scorso, e il suo incondizionato sostegno per l’operazione “spade di ferro”, pur avendo il premier israeliano fatto esplicito riferimento – per chiarire le sue intenzioni – allo sterminio degli Amaleciti raccontato nella Bibbia? Il mandato di arresto per Netanyahu e il suo Ministro della Difesa Gallant, spiazza tutti i governi europei che, come quello italiano, hanno coperto i crimini di Israele e hanno cercato di silenziare tutte le proteste con i manganelli, trasformandosi negli avvocati difensori di Israele nel proscenio internazionale.

Ora non c’è più tempo da perdere, le indagini della Corte penale internazionale certificano l’esistenza di quelle atrocità inimmaginabili che la politica ha finto di non vedere. Se non vogliamo diventare complici, non possiamo più tacere. L’incriminazione di Netanyahu ci avverte che i crimini contestati sono ancora in corso. È dovere della Comunità internazionale porre fine a questo scempio. Bisogna esigere il cessate il fuoco immediato a pena di sanzioni adeguate. L’occupazione della Striscia di Gaza è illegale, dopo i disastri che ha combinato non si può consentire ad Israele di restare arbitro della vita e della morte degli abitanti di Gaza. Deve intervenire una missione dell’ONU per separare i contendenti e garantire la sopravvivenza della popolazione di Gaza.

Domenico Gallo (da volerelaluna.it, 22-05-2024