venerdì 12 luglio 2024

Carceri, l’inferno e l’amnistia tabù

Aveva trentasei anni ed era nato a Civitanova di Reggio Calabria il poliziotto penitenziario che si è tolto la vita nella notte dello scorso 6 luglio: è il sesto dall’inizio dell’anno. Della crudele epidemiologia carceraria, questo è forse il dato più trascurato: secondo alcune stime sindacali, nell’arco del decennio 2010-2020, sarebbero stati circa cento i suicidi tra gli agenti della penitenziaria (un dato decisamente più alto di quello riscontrato all’interno degli altri corpi di polizia). È il segnale più inequivocabile del fatto che l’organizzazione penitenziaria è ormai diventata una macchina patogena che produce frustrazione, angoscia, psicosi, autolesionismo e morte. Sia tra i custodi che tra i custoditi. Nel corso della prima metà del 2024, sono già 54 i detenuti che hanno deciso di porre fine alla propria esistenza. Si sa, ogni suicidio è una storia a sé, ma le dinamiche soggettive possono essere potentemente acuite e rese dirompenti dalle condizioni ambientali.
Il carcere, sin dalla sua struttura fisico-materiale – tutta ferro, cemento, acciaio –, è un sistema incombente e immanente, qualcosa di estremamente pesante e oppressivo, un apparato che immobilizza e leva il respiro. Al dispositivo di privazione della libertà corrisponde un meccanismo invalidante, che non solo blocca i movimenti e i desideri, ma che rimpicciolisce i corpi e gli spazi, annichilisce i pensieri, rallenta i ritmi, induce narcolessia e afasia. Esserne imprigionato perché carceriere o carcerato determina quella depressione e quella claustrofobia emotiva che è tra le prime cause dell’autolesionismo. Tutto ciò è nella natura e nella forma dell’istituzione detentiva e le attuali condizioni in cui essa si trova portano al parossismo le pulsioni di morte che vi covano.
Quando si dice «sovraffollamento» il richiamo non è a un vagone della metropolitana all’ora di punta, bensì a una di quelle sculture di Auguste Rodin dove un gruppo di dannati, avvinti tra loro, patiscono le pene dell’inferno.
Una congestione di corpi, membra, arti che si incrociano, si scontrano, si sovrappongono, tra respiri, sudori, umori, secrezioni, eiezioni e odori acri, in una promiscuità coatta e senza scampo. Solo chi non è mai stato in un carcere può ritenere esagerata questa descrizione. In una simile situazione, la prima vittima è la dignità umana: quando, tuttora, in molte celle delle nostre carceri il detenuto è costretto a orinare e defecare davanti ai propri compagni, converrete che preservare uno straccio di rispetto per sé è impresa davvero eroica.
Questo è oggi lo stato del sistema penitenziario italiano, dove si trovano circa 14 mila reclusi oltre la capienza regolamentare. C’è da stupirsi se – all’interno di quella popolazione dolente, ammaccata, stressata – la percentuale di suicidi è venti volte superiore a quella registrata tra le persone libere? Di fronte a una simile catastrofe dell’umanità e del diritto, cosa è possibile fare?
La risposta del governo è stata finora risibile. Va riconosciuto, innanzitutto, che la situazione è di irreversibile emergenza e che vanno adottate misure urgenti, capaci di ridurre drasticamente la popolazione reclusa. Finalmente la parola proibita è stata detta: il magistrato Bernardo Petralia, già capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha affermato: «Bisogna cominciare seriamente a riflettere su un’amnistia».
Già, ma in fretta ché il tempo stringe. I provvedimenti di clemenza quali amnistia e indulto subiscono ormai una sorta di interdizione politica, ridotti a tabù impronunciabili. Eppure, come ricorda Stefano Anastasia, filosofo e sociologo del diritto, «si trovano lì, al comma 2 dell’art. 79 della nostra Carta costituzionale». E aggiunge: «La clemenza è la virtù dei forti». L’ultimo indulto venne approvato nel 2006 dal parlamento con la maggioranza dei due terzi. A quasi due decenni da allora i dati relativi a quella misura andrebbero riletti lucidamente e valutati con serenità.
All’epoca ne beneficiarono 36.741 condannati. Di questi, dopo cinque anni, sono rientrati in carcere 12.462, con un tasso di recidiva complessivo del 33,92 per cento (è il professor Giovanni Torrente a fornire questi dati). Una percentuale in apparenza assai elevata, ma inferiore di oltre la metà alla recidiva ordinaria (68,45 percento).
Inoltre, tra i 7.878 in regime di misura alternativa che beneficiarono del provvedimento, il tasso di recidiva si ridusse al 21,97 per cento. In sostanza, quell’indulto, che purtroppo non fu accompagnato da una contemporanea amnistia, ebbe un esito assai positivo: anche se, in assenza di ulteriori interventi strutturali, gli effetti di deflazione sul sovraffollamento si esaurirono nell’arco di pochi anni. Oggi, quell’esperienza così significativa e così diffamata andrebbe ripresa. Si troverà, all’interno dell’attuale classe politica, sufficiente intelligenza per affrontare, senza codardia, una prova così importante?

LUIGI MANCONI (da “La Repubblica” del 10/6/24)