Carceri, l’inferno e l’amnistia tabù
Aveva trentasei anni ed era
nato a Civitanova di Reggio Calabria il poliziotto penitenziario che si è tolto
la vita nella notte dello scorso 6 luglio: è il sesto dall’inizio dell’anno.
Della crudele epidemiologia carceraria, questo è forse il dato più trascurato:
secondo alcune stime sindacali, nell’arco del decennio 2010-2020, sarebbero
stati circa cento i suicidi tra gli agenti della penitenziaria (un dato
decisamente più alto di quello riscontrato all’interno degli altri corpi di
polizia). È il segnale più inequivocabile del fatto che l’organizzazione
penitenziaria è ormai diventata una macchina patogena che produce frustrazione,
angoscia, psicosi, autolesionismo e morte. Sia tra i custodi che tra i
custoditi. Nel corso della prima metà del 2024, sono già 54 i detenuti che
hanno deciso di porre fine alla propria esistenza. Si sa, ogni suicidio è una
storia a sé, ma le dinamiche soggettive possono essere potentemente acuite e
rese dirompenti dalle condizioni ambientali.
Il carcere, sin dalla sua struttura fisico-materiale – tutta ferro, cemento,
acciaio –, è un sistema incombente e immanente, qualcosa di estremamente
pesante e oppressivo, un apparato che immobilizza e leva il respiro. Al
dispositivo di privazione della libertà corrisponde un meccanismo invalidante,
che non solo blocca i movimenti e i desideri, ma che rimpicciolisce i corpi e
gli spazi, annichilisce i pensieri, rallenta i ritmi, induce narcolessia e
afasia. Esserne imprigionato perché carceriere o carcerato determina quella
depressione e quella claustrofobia emotiva che è tra le prime cause
dell’autolesionismo. Tutto ciò è nella natura e nella forma dell’istituzione
detentiva e le attuali condizioni in cui essa si trova portano al parossismo le
pulsioni di morte che vi covano.
Quando si dice «sovraffollamento» il richiamo non è a un vagone della
metropolitana all’ora di punta, bensì a una di quelle sculture di Auguste Rodin
dove un gruppo di dannati, avvinti tra loro, patiscono le pene dell’inferno.
Una congestione di corpi, membra, arti che si incrociano, si scontrano, si
sovrappongono, tra respiri, sudori, umori, secrezioni, eiezioni e odori acri,
in una promiscuità coatta e senza scampo. Solo chi non è mai stato in un
carcere può ritenere esagerata questa descrizione. In una simile situazione, la
prima vittima è la dignità umana: quando, tuttora, in molte celle delle nostre
carceri il detenuto è costretto a orinare e defecare davanti ai propri
compagni, converrete che preservare uno straccio di rispetto per sé è impresa
davvero eroica.
Questo è oggi lo stato del sistema penitenziario italiano, dove si trovano
circa 14 mila reclusi oltre la capienza regolamentare. C’è da stupirsi se –
all’interno di quella popolazione dolente, ammaccata, stressata – la
percentuale di suicidi è venti volte superiore a quella registrata tra le
persone libere? Di fronte a una simile catastrofe dell’umanità e del diritto,
cosa è possibile fare?
La risposta del governo è stata finora risibile. Va riconosciuto, innanzitutto,
che la situazione è di irreversibile emergenza e che vanno adottate misure
urgenti, capaci di ridurre drasticamente la popolazione reclusa. Finalmente la
parola proibita è stata detta: il magistrato Bernardo Petralia, già capo del
Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha affermato: «Bisogna
cominciare seriamente a riflettere su un’amnistia».
Già, ma in fretta ché il tempo stringe. I provvedimenti di clemenza quali
amnistia e indulto subiscono ormai una sorta di interdizione politica, ridotti
a tabù impronunciabili. Eppure, come ricorda Stefano Anastasia, filosofo e
sociologo del diritto, «si trovano lì, al comma 2 dell’art. 79 della nostra
Carta costituzionale». E aggiunge: «La clemenza è la virtù dei forti». L’ultimo
indulto venne approvato nel 2006 dal parlamento con la maggioranza dei due
terzi. A quasi due decenni da allora i dati relativi a quella misura andrebbero
riletti lucidamente e valutati con serenità.
All’epoca ne beneficiarono 36.741 condannati. Di questi, dopo cinque anni, sono
rientrati in carcere 12.462, con un tasso di recidiva complessivo del 33,92 per
cento (è il professor Giovanni Torrente a fornire questi dati). Una percentuale
in apparenza assai elevata, ma inferiore di oltre la metà alla recidiva
ordinaria (68,45 percento).
Inoltre, tra i 7.878 in regime di misura alternativa che beneficiarono del
provvedimento, il tasso di recidiva si ridusse al 21,97 per cento. In sostanza,
quell’indulto, che purtroppo non fu accompagnato da una contemporanea amnistia,
ebbe un esito assai positivo: anche se, in assenza di ulteriori interventi
strutturali, gli effetti di deflazione sul sovraffollamento si esaurirono
nell’arco di pochi anni. Oggi, quell’esperienza così significativa e così
diffamata andrebbe ripresa. Si troverà, all’interno dell’attuale classe
politica, sufficiente intelligenza per affrontare, senza codardia, una prova
così importante?
LUIGI MANCONI (da “La Repubblica” del 10/6/24)