domenica 18 agosto 2024

Medio Oriente. La via della riconciliazione contro il fanatismo


Nel suo ultimo libro Gaza. Odio e amore per Israele (Feltrinelli, 2024) Gad Lerner si misura con il fanatismo identitario che ha contagiato i due popoli in guerra all’indomani del 7 ottobre 2023 quandoHamas, sconfinando da Gaza, ha compiuto in Israele il più terribile massacro di ebrei dal tempo della Shoah e al quale è seguita una sanguinosa offensiva militare da parte del governo di Netanyahu che ha generato decine di migliaia di morti tra i civili e, di conseguenza, screditato la reputazione di Israele in ambito internazionale come mai era accaduto prima d’ora. Abbiamo intervistato Lerner per fare chiarezza sulle idiosincrasie delle Destre, il Sionismo, le spaccature della società israeliana, la risposta delle varie comunità ebraiche della diaspora e il crescente antisionismo e antisemitismo a livello internazionale.

Un libro sofferto, che esprime il disagio per una polarizzazione distruttiva. Perché il conflitto tra Israele e Palestina suscita questo tipo di reazioni estremamente polarizzate? Si tratta di un conflitto “diverso” dagli altri?

Il conflitto in Israele e Palestina porta con sé un condensato di contraddizioni mondiali, che provoca immediatamente processi di identificazione e lacerazione anche in chi, in apparenza, se ne trova lontano. E questo avviene non solo su una dimensione sociale e nazionale, ma anche sul piano religioso, o meglio della forzatura dell’elemento religioso, che va ulteriormente a esacerbare il tema principale del conflitto stesso, che è quello della convivenza in uno stesso territorio tra persone e popoli con identità diverse. Un tema fondamentalmente simile a quello che viviamo oggi “in casa nostra”.
Forse è questo che lo rende, nella percezione, un conflitto “diverso dagli altri” ed è un fatto che sebbene oggi siano in corso 187 conflitti nel mondo secondo l’Uppsala data conflict program, nessuno di essi ha provocato meccanismi di schieramento e immedesimazione così forti come in questo caso.
Proprio per questi motivi sentiamo che se non si giungerà non tanto a un “cessate il fuoco”, quanto più a una vera e propria riconciliazione, a una forma di convivenza “tra diversi” in quel fazzoletto di terra, i nazionalismi assumeranno una forma sempre più fondamentalista e il fanatismo verrà sempre più esportato anche da noi, e quel tipo di conflitto sarà, come già si è dimostrato, contagioso.

Perché la Destra “tradizionalmente antisemita” oggi è la punta del filo-israelismo?

Anche se sembra paradossale, oggi si può benissimo essere allo stesso tempo sia antisemiti sia sionisti, in quanto Israele, del quale le Destre nazionaliste di tutto il mondo si proclamano ammiratrici, è per loro un modello statale, un modello di società etnocentrico, che è esattamente ciò che è alla base della loro cultura e ideologia. Questi nuovi ammiratori sono gli stessi che hanno detestato la natura cosmopolita dell’Ebraismo, il messaggio universalistico contenuto nella Bibbia e che hanno rilevato una misteriosa ambiguità nell’Ebraismo e nella sua perpetuazione nei secoli, nonostante la diaspora, l’esilio e le persecuzioni. Dal mio punto di vista, questi sono i più infidi “amici” che noi ebrei potremmo mai augurarci.
Il paradosso è percepibile persino nei pregiudizi. Da una parte “è ovvio” che esista una cupola sovranazionale di avidi finanzieri, come quella sbandierata dai Protocolli dei Savi di Sion, che vogliono depredare il pianeta e che si è recentemente rinnovata nella teoria che vede George Soros come il “burattinaio dei flussi migratori”. Dall’altra, ma si tratta solo dell’altra faccia di una stessa matrice culturale, c’è il giudeo bolscevico, il rivoluzionario, il sovversivo, l’ebreo che è sleale alla nazione perché non ha radici nel luogo in cui è nato.
Ebbene, oggi, tutto questo, nelle sue contraddizioni, permane nella cultura delle Destre nazionaliste, ma allo stesso tempo esse guardano con interesse a Israele quando, con l’approvazione della Legge fondamentale (Israel as the nation state of the Jewish people) avvenuta il 18 luglio 2018 alla Knesset si autodefinisce Stato-nazione del popolo ebraico e che “esclusivamente agli ebrei” offre totale accoglienza. Si tratta della stessa idea di società che hanno le Destre, secondo la quale solo se essa è omogenea etnicamente e vincolata alle proprie tradizioni può essere sana, rigogliosa e avere un futuro.
Oggi, però, più di qualcuno di questi esponenti di Destra è piuttosto imbarazzato nel vedere questo “avamposto dell’Occidente in terra ostile”, questo “baluardo contro l’espansionismo islamico” così lacerato al suo interno e di conseguenza così vulnerabile nonostante l’ostentazione di una supremazia economica e militare.

Da più parti la Soluzione a due Stati è liquidata come un progetto irrealizzabile. Esiste un’opzione alternativa?

Dal mio punto di vista dobbiamo partire dall’assunto che sia gli israeliani che i palestinesi non hanno un altro posto in cui andare e quindi l’alternativa al riconoscere piena autodeterminazione ai palestinesi non può rappresentare altro se non l’annuncio della prosecuzione a oltranza della guerra.
In futuro, uno Stato aconfessionale e multinazionale sarebbe il modello più augurabile, ma in quello Stato, che verosimilmente non sarebbe mai davvero aconfessionale e laico, nessuno dei due popoli oggi si potrebbe sentire al sicuro e dunque è molto facile scivolare nello scetticismo.
Chi si sente coinvolto in prima persona in questo conflitto, chi ha parte della propria famiglia che vive la quotidianità della guerra, chi conosce il dolore e il lutto sia dalla propria parte che dall’altra, chi conosce cosa sia il trauma della Shoah e della Nakba non può permettersi il lusso dello scetticismo o del pessimismo e ha il dovere di credere che questa sia l’unica soluzione ragionevole declinata poi nella realtà concreta di una terra che è popolata a macchie di leopardo, che non sarà più separabile nei modi in cui era stata pensata dalla Società delle Nazioni nel 1947. Ad oggi troppo è cambiato, esistono infrastrutture comuni e quindi è probabile che si possa profilare un destino confederale e io sono convinto anche che ci siano persone di buona volontà in grado di avviare un processo di riconciliazione che può essere molto più rapido di quanto l’odio feroce, in cui siamo immersi, lascerebbe intendere. Basti pensare alla velocità con cui i francesi e i tedeschi hanno ristabilito la pace tra le proprie nazioni dopo la Seconda guerra mondiale.

Nel libro si definisce “ebreo di Kippur”, che è come dire “credente della domenica”, ma ascolta con attenzione ciò che predicano i rabbini. Come giudica questo atteggiamento ufficiale dell’Ebraismo?

Guardo con diffidenza alla recente svolta che si è manifestata nelle scuole rabbiniche, nelle yeshivat e nelle autorità “dell’ortodossia rabbinica” anche italiane. Mi riferisco in particolare a un cambio di orizzonte: la generazione precedente, parlo dei tempi di Elio Toaff e di Giuseppe Laras, fu quella dei rabbini che hanno accompagnato l’Ebraismo italiano a uscire dalla tragedia della guerra e della Shoah. Oggi si riporta in auge, invece, un certo “Sionismo religioso”. In passato l’ortodossia rabbinica si opponeva a questa concezione perché considerava sacrilega l’idea che uomini, per giunta laici e non osservanti, potessero anticipare la volontà del Signore e si trasformassero in dei “messia” in carne e ossa, che praticavano la rinascita della “Terra promessa”.
Oggi invece non è raro ascoltare in sinagoga degli interventi di rabbini che danno un’interpretazione religiosa dei fatti politici e magari giustificano come “provvidenziali” episodi di guerra anche molto cruenti. E questa è una cosa che, da ebreo pur poco osservante, mi spaventa moltissimo.
Nei fatti, però, la leadership della Destra israeliana è ancora nelle mani di laici non osservanti. Netanyahu, ad esempio, non porta abitualmente la kippah, ma strumentalizza ciclicamente e cinicamente l’aspettativa quasi apocalittica di distruzione del nemico che in realtà porta dentro di sé una forma di autodistruzione.
Io vedo in questa guerra che si prolunga un meccanismo di distruzione e autodistruzione e il fatto che autorità del rabbinato (persone di cui, peraltro, ho anche grande stima e rispetto) pratichino un certo “feticismo della terra” – cioè una visione della Terra promessa materializzata in pietre e luoghi – è per me una degenerazione quasi idolatrica di una religione monoteista. Esattamente come l’Islam deformato da Hamas, che è l’acronimo di Movimento islamico di resistenza, non parla di “Palestina” ma di “Terra d’Islam” da restituire ai musulmani.

C’è ancora una parte “buona” nella politica israeliana? Non è la solita illusione di voi “ebrei buoni”?

Solitamente ripudio con fastidio la definizione di ebreo “buono”, che spesso mi viene affibbiata per le mie posizioni critiche nei confronti di Israele, perché ha dentro di sé l’idea che la perfidia ebraica sia un dato che dobbiamo riconoscere nei comportamenti criminali con i quali si è risposto al massacro del 7 ottobre, cadendo nella trappola perfettamente ordita da Hamas. So bene che allo stesso modo in cui tantissimi palestinesi il 7 ottobre esultarono per la morte di bambini, donne, ed ebrei innocenti, anche tantissimi israeliani, desiderosi di vendetta, pensarono che a Gaza nessuno fosse innocente.
Ad oggi Israele è divisa in “tribù” che non comunicano tra loro a tal punto che, già prima del 7 ottobre, lo stesso presidente della Repubblica aveva parlato di una guerra civile all’interno di Israele; in tempi recenti si assiste quindi a uno scontro divenuto aperto e pubblico tra gli Stati maggiori delle forze armate dei servizi segreti e il Governo; in ogni caso c’è una parte della società israeliana che, avendo rimosso per decenni l’esistenza della questione palestinese, e avendo la necessità di trovare una soluzione nazionale per i palestinesi, si è resa conto della situazione e guarda con rispetto a quelle minoranze illuminate che, in questi anni, hanno perseguito il negoziato, il compromesso e la reciproca conoscenza. Penso alle 750 famiglie di The parents circle-families forum che riuniscono parenti prossimi di vittime sia da parte palestinese che israeliana. Io sono convinto che ci siano sia nella parte israeliana sia palestinese figure anche politiche (non necessariamente di Sinistra) che possano fare qualcosa di buono: penso alle prese di posizione di Ehud Olmert – che è stato Primo ministro d’Israele e che in passato ha fatto anche una guerra – sulla necessità di un “cessate il fuoco” e della creazione di uno Stato palestinese; penso anche che possa crescere quella componente pacifista emersa nelle proteste contro Netanyahu nel corso di tutto il 2023, esattamente come penso che Marwan Barghuthi, detenuto ancora nelle carceri israeliane con 5 ergastoli, possa essere l’uomo che ha l’autorevolezza e la credibilità sufficienti per perseguire la linea dei due popoli/due Stati e non quella della guerra a oltranza per conquistare tutto il territorio “dal fiume al mare”, che è uno slogan adottato sia da israeliani che da palestinesi.

Qual è la via da seguire per ottenere la pace?

Sviluppare all’interno della società israeliana e palestinese, ma anche delle nostre, il necessario spirito autocritico che permetta di arrivare alla comprensione dell’altro e all’inevitabile convivenza. Una cosa che però è obiettivamente più difficile da fare per i palestinesi a causa delle condizioni in cui si ritrovano a vivere.
Mi ha molto colpito quello che ho sentito dire ai volontari di Medici senza frontiere, che hanno mantenuto un presidio a Gaza durante questa carneficina: «Non credete al luogo comune secondo il quale stiamo solo allevando una nuova generazione di terroristi, ovvero che i bambini di Gaza di oggi saranno i nuovi kamikaze di domani», in quanto chi sta lì non ha una visione così schematica. La popolazione ha bisogno di pace, di certezze nel luogo in cui abita, di ricostruire, di essere curata non soltanto nella dimensione materiale, ma anche nelle profonde ferite dell’animo, nei traumi psicologici che questa guerra ha portato con sé, e questo è un bisogno diffuso sia per i palestinesi di Gaza, sigillati nel loro territorio, che per quelli della Cisgiordania, i quali hanno avuto l’occasione di conoscere meglio il mondo ebraico.
Questa è l’unica strada percorribile, ma per fare ciò anche noi europei dobbiamo contribuire, evitando gli anatemi: basta, dunque, dire a chi prova solidarietà con i palestinesi che è necessariamente un “antisemita potenziale” o un “nemico degli ebrei”, ma basta anche con il sostegno retorico ad Hamas come se si trattasse di un movimento partigiano di liberazione nazionale.
Per uscire da questi schemi è necessario il contributo di tutti e tutte, in quanto il fanatismo è un prodotto di esportazione che va per la maggiore ed è molto contagioso.

Gad Lerner, giornalista, conduttore televisivo e saggista
(Intervista a cura di Claudio Paravati, direttore Confronti del 2 agosto 2024)