lunedì 2 settembre 2024

LA FINE-VITA RESTA OSTAGGIO DELLA CHIESA E DELLO STATO


Ci risiamo con la fine-vita maneggiata dalle multiple prescrizioni religiose, tutte con la condanna incorporata, oppure regolata dalle laiche licenze dello Stato con postille che agevolano divieti, intorno alla collettiva vertigine di quel che si può fare o disfare con la (propria) morte, a completamento della (propria) vita.

Chiesa e Stato se ne appropriano a conferma delle loro rispettive funzioni apicali, la prima sul gregge a quattro zampe, il secondo sui cittadini a testa bassa. Al contrario di entrambi i rispettivi poteri, resto convinto che il diritto di morire debba esistere senza ricatti ideologici, in nome della libertà personale e naturale, la stessa che ci consente di fare una buona vita in sintonia con la libertà degli altri, almeno fino a quando il destino lo consente.

Complementari nel corso della storia, Chiesa e Stato dicono che “non esiste il diritto di morire”, l’una accreditandosi erede di chi inventò le fantasiose circonferenze della religione, che in qualunque versione si dichiara pronta a risarcire il mistero della morte con l’ultraterreno; gli altri in qualità di architetti delle geometriche strutture giuridiche e sociali che governano i nodi della vita qui sulla terra.

La Chiesa anche nel suo ultimo documento “Piccolo lessico del fine-vita”, sostiene che la vita, in quanto dono di Dio, è preziosa al punto che nulla, fino all’ultimo respiro, deve essere sprecato, salvo “aprirsi al dialogo” sull’accanimento terapeutico. Uno spiraglio, più che un’apertura. Intendimento non tanto differente lo argomenta la Corte costituzionale, quando prescrive che il “diritto inalienabile alla vita” si colloca “in posizione apicale”, escludendo il diritto alla morte, che non è “neppure invocabile”.

Alle chiusure religiose della Pontificia Accademia non vale la pena controbattere più di tanto. Discendono dalla narrativa della dottrina che ha un raggio di invenzioni-rivelazioni talmente ampio e insieme indimostrabile che per sostenerle o confutarle vale tutto e il suo contrario. Quelli sono i canoni e quelli restano. E va bene così: i credenti se lo meritano, anzi lo pretendono nei riti, nei miti, nella volontaria sottomissione all’obbedienza. Come dicevano gli antichi, sono impossibili da svegliare, visto che hanno accettato di fare finta di dormire. E lo Stato laico? La Corte, di quando in quando, si aggiorna rispetto “ai progressi tecnico-scientifici” e dunque modifica i confini del “trattamento di sostegno vitale” che consente “l’aiuto di una terza persona” a interromperlo quando “l’infermità è irreversibile” o la “sofferenza intollerabile”. È qualcosa, ma niente affatto abbastanza. Almeno per chi non accetta che la Chiesa prescriva e che lo Stato conceda. Ma davvero siamo tutti disposti a negarci il diritto, e anche il favore di morire in santa pace, senza trasformare il distacco nel lungo addio delle reciproche sofferenze, tra chi cura e chi è curato, chi si congeda e chi resta?

La vita biologica dell’organismo che oggi la tecnica è in grado di mantenere in funzione, può durare un tempo virtualmente infinito. Eluana Englaro, Piergiorgio Welby, Luca Coscioni e mille altri, compresi amici e parenti, ce lo hanno insegnato, tutti imprigionati dall’ottusità delle regole e ancora di più dallo spettacolo miserabile dalla politica, che la chiesa perfeziona con il funzionale dispetto di negare i funerali ai sospettati di eutanasia.

La nostra vita vera, come la intendiamo da viventi, dotata di un significato per sé e per gli altri, di uno scopo e persino di uno stile, ci appartiene per intero. Compreso il diritto finale di interromperla. Magari con l’aiuto di una persona che se ne incarica, quando le condizioni per esercitare il nostro diritto è stato compromesso o del tutto vanificato, bastando, per compiersi, il coraggio di prevederlo.

Pino Corrias - Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2024