Per un sinodo e un concilio “altro”
Concilio e dintorni
La generazione che visse la stagione conciliare operò per promuovere con urgenza alcune riforme ritenute essenziali per il bene della fede e della stessa chiesa.
Fu una scommessa consapevole, anche se contrassegnata da alcune ingenuità.
Era chiaro già allora che alcune posizioni e strutture, presentate dal magistero come perenni ed intangibili nella tradizione cattolica, erano invece costruzioni storiche (il papato, il sacerdozio, il celibato obbligatorio, l’esclusione delle donne dal ministero).
L’eresia ecclesiocentrica che trovò crescente spazio dal Dictatus Papae (1075) fino al Concilio Vaticano I ebbe un reale correttivo nel Concilio Vaticano II.
Ma se lo "spirito" del Concilio fu "liberale" ed evangelico, i testi conciliari rappresentarono già un "compromesso delle formule" che mise le basi per la susseguente lettura ed interpretazione "continuista" e tradizionalistica.
Andrebbero analizzate con maggiore coraggio le ambiguità che il Concilio non ha voluto o potuto risolvere sul terreno dell’ecclesiologia. Sono stati gettati dei semi, ma si è accuratamente "salvata" un’ecclesiologia piramidale che, a livello teologico, non è stata superata.
In questi anni troppo poco si è insistito sui limiti del Concilio, con il rischio di fare dei documenti conciliari la magna charta del rinnovamento evangelico della Chiesa.
La citazione del Concilio, fatta e ripetuta in tutte le sedi ed in tutte le direzioni, è diventata un rituale spesso privo di un significato realmente innovativo.
Dunque…. un nuovo Concilio? Credo, in verità, che sarebbero maturi i tempi per un Concilio di tutte le chiese cristiane. Tali sono le "sfide" che il mondo di oggi rivolge al cristianesimo che a me sembrano non procrastinabili una riflessione ed un'azione comune tra tutte le chiese cristiane. In attesa che maturi questo "evento", penso che una nuova coscienza ecclesiale esiga non solo un altro Concilio, ma soprattutto un Concilio "altro".
Lo studioso, giornalista professionale e vaticanista insigne Luigi Sandri, nel suo “Dal Gerusalemme I al Vaticano III” (Editrice IL Margine, Trento 2013), documenta le difficoltà e le paure che ostacolano il cammino verso un Concilio di tutte le chiese cristiane, ma segnala anche le voci che sollecitano a prendere, senza ulteriori dilazioni, una decisione che si presenta come urgente e necessaria. Che si tratti di un sinodo o di un concilio, occorre fare in modo che la prassi sinodale non sia un enunciato stellare. Da subito occorre mettere mano ad una “rivoluzione strutturale” che superi il concetto e la pratica degli organi consultivi che lasciano al pontefice romano l'ultima parola, anche in contrasto con l'espressione dell'assemblea.
Non serve più la retorica conciliare o sinodale: bisogna cambiare le regole altrimenti il “gioco è già truccato in partenza”. Questo oggi, dentro le varie esperienze comunitarie, costituisce il passaggio necessario dalle enunciazioni e dalle disquisizioni sulla comunione alla pratica della comunione ecclesiale. Nel 1994, nel volume “Se il popolo di Dio prende la parola” (Quaderni Rai), pubblicai alcune puntuali riflessioni su “L'imbroglio sinodale”, insistendo soprattutto su un percorso comunitario in cui sia costruttivo e costitutivo il prendere la parola del popolo di Dio. Il resto sono infantilizzanti chiacchiere e ben note distrazioni.
Voglio dire che ormai è teologicamente maturo il tempo per una rappresentanza diversa. Il solo episcopato non può rappresentare adeguatamente una chiesa. Oggi le donne, i preti sposati, i gay e le lesbiche credenti, i divorziati che vivono le seconde nozze, i teologi e le teologhe, il movimento "Noi siamo chiesa", le comunità cristiane di base, i/le cristiani/e attivi/e nel volontariato o nell'impegno culturale, amministrativo e politico, nei movimenti della pace, nel femminismo, nelle lotte contro l'ecocidio e il patriarcato rappresentano un patrimonio di riflessione e di azione la cui voce è indispensabile per ripensare il senso della presenza cristiana nel mondo.
Tutte queste "presenze" debbono avere voce attiva, deliberativa e non solo consultiva. Oggi, insomma, un Concilio comporterebbe a livello teologico una presa d'atto della necessità di superare il modello precedente.
Con i "padri conciliari" dovrebbero sedere le madri, i fratelli e le sorelle "conciliari". Senza questa rappresentanza reale del popolo di Dio, un concilio clericale e patriarcale partirebbe con il piede sbagliato.
Un altro Concilio, se non sarà un Concilio "altro", sarà privo di vera autorevolezza evangelica.
Spero che questo "oltrepassamento" avvenga perché, senza questa coralità, la nostra chiesa potrebbe correre il rischio di imprigionarsi in un ghetto o di diventare un museo. La mia fiducia sta nel fatto che il "vento soffia… inarrestabile, irresistibile…" fino al passo decisivo che è la sinodalità.
Sul terreno esegetico, ermeneutico e storico in questo periodo sono fioriti studi di estrema rilevanza, ma non possiamo non constatare che nelle istanze gerarchiche si è diffuso un sistematico sospetto verso la libertà di ricerca, di idee, di espressione.
Non credo che basti il cambio del timoniere romano per far crescere un clima nuovo nella nostra chiesa.
Occorre, oltre alla svolta ermeneutica della teologia, anche una spiritualità del dialogo che tenga in tensione libertà e unità della fede. A me sembra decisivo praticare insieme comunione essenziale e libertà reale, e ritengo fondamentale restare "dentro" questa gestazione evangelica, sia pure con le più audaci e umili forme di dissenso.
Certo, il regno di Dio non è limitato alle mappe ecclesiali e la chiesa cattolica non può intendersi solo come lo spazio riconosciuto dalle gerarchie. Non è più l’ortodossia il criterio di identificazione del cristiano, ma mai come oggi, anche dentro la chiesa, abbiamo bisogno di ascoltare umilmente, di resisterci a viso aperto, di parlarci anche con durezza, di praticare sentieri pastorali diversi, di analizzare lucidamente il ruolo di certe istituzioni: tutto questo senza spirito di scomunica, continuando a pregare gli uni per gli altri. Altrimenti si separa l’esercizio della libertà cristiana dallo spirito di comunione. Questo sarebbe un divorzio negativo destinato a impoverire la nostra fede.
Ho sempre pregato insistentemente Dio consapevole di quanto sia impresa difficile tenere insieme libertà evangelica e spirito-prassi di comunione. Esiste, infatti, il pericolo di enfatizzare talmente le esigenze della "comunione" ecclesiale da sopprimere del tutto o ridurre al minimo l’esercizio della libertà evangelica o da sottovalutare le esigenze della comunione cristiana "essenziale" nel nome della libertà evangelica.
Non penso che si tratti di usare il bilancino, ma di portare ben radicate in noi le due istanze, senza cercarne una composizione equilibrata, una formula valida per ogni tempo, ma piuttosto accettando un percorso mosso, conflittuale e accidentato, sempre imprevedibile, costantemente aperto all’azione trasformatrice di Dio. Dentro la nostra vita personale e comunitaria, sia la libertà evangelica, sia la comunione debbono sempre ripensarsi.
Oggi, mentre si invoca molto spesso a sproposito la comunione ecclesiale per mantenere lo status quo nell’istituzione ecclesiastica e per continuare a praticare la sottomissione delle coscienze e vietare delle pratiche pastorali innovative, occorre sottolineare vigorosamente che non si favorisce la comunione nella fede se si riduce la libertà dei figli e delle figlie di Dio.
A questa spiritualità non dovrebbe mancare l’audacia di esperimentare, il coraggio di vivere la comunità come experimentum, come laboratorio, come luogo dove si parlano nuovi linguaggi, si celebrano nuove liturgie, si dà spazio a nuovi soggetti nella consapevolezza che "attualizzare la tradizione significa proporre nuove interpretazioni della Scrittura, dei simboli di fede, delle formule dogmatiche". Come la fede e la vita esigono a gran voce da tempo.
Sono necessarie teologie e liturgie, ma il centro della nostra fede resta la prassi dell’amore.
(continua)