mercoledì 27 novembre 2024

Abusi, riconciliazione e risarcimento: un sopravvissuto chiama in causa i “pastori” della Chiesa

DOC-3340. ROMA-ADISTA. Germania, inizi degli anni ‘90: Peter Gehring è un ragazzo che studia ingegneria meccanica all’Università, e contemporaneamente avverte una chiamata al sacerdozio. Aveva conosciuto e apprezzato la Famiglia di Maria – comunità oggi commissariata dal Vaticano per i presunti abusi spirituali e psicologici del suo cofondatore e superiore p. Gebhard “Paul Maria” Sigl, v. la nostra lunga inchiesta su Adista – e lì inizia il suo percorso religioso. La vita nella comunità, però, si rivela molto poblematica, come ci ha raccontato lui stesso nella sua intensa testimonianza lo scorso febbraio: dotato di una forte indipendenza di giudizio e di spirito critico, Peter non è disposto ad annullarsi in un’obbedienza cieca, come richiesto dal superiore. Ma Sigl, come accade tipicamente nelle comunità con derive settarie, e secondo un copione frequente nella Famiglia di Maria, non accetta la sua mancanza di asservimento: considerandolo un pericolo per l’ecosistema che aveva creato, raccontava Peter, il superiore gli fa terra bruciata intorno, mettendogli contro i confratelli e le consorelle, spargendo voci, facendolo sentire isolato, controllato, spiato e rendendogli la vita impossibile. Finché Peter, esausto, non decide che è troppo e, nel 1997, si allontana dalla comunità.

La testimonianza sulla vita nella Famiglia di Maria che abbiamo citato parlava, tra le altre cose, di mancanza di rispetto della sfera privata e di profonda intrusione nella vita dei membri, di una pressante richiesta di devolvere le proprie risorse finanziarie alla comunità; il pensiero unico di p. Sigl «chiedeva obbedienza incondizionata»: «La sua parola era pari alla parola di Dio. Si vantava di essere illuminato da Dio e giustificava tutte le sue decisioni con le sue "ispirazioni divine", "luce di Dio" che lui aveva ricevuto». Peter non aveva seguito questa direzione «perché, interiormente, ho avvertito che non era giusto. Mi sono richiamato alle parole di Sant'Agostino, che considerava la coscienza come la massima autorità attraverso la quale si esprime la voce di Dio». Poco era rimasto del mondo perfetto che gli era stato presentato all'inizio: «Ha cominciato a emergere una struttura simile a una setta, con Gebhard al centro come il guru e tutti che lo accettavano come loro signore e maestro». Peter, come detto, non ci sta. Esce esasperato, senza risorse, interrompendo bruscamente gli studi che avrebbero dovuto portarlo al sacerdozio, e dunque obbligato a ricominciare tutto da capo. «Cercavo di finanziare i miei studi con lavori occasionali. In quel periodo mi sentivo molto male. Ero completamente distrutto dentro. La comunità era diventata il centro della mia vita e mi ci ero saldamente radicato. Ora mi sentivo come un albero abbattuto».

È la precarietà che spesso attende le vittime di abusi, e che può renderle più esposte a nuovi potenziali abusi. Lo stesso Peter, malgrado la formazione per l’insegnamento della religione e la missio canonica ricevuta, non ha mai ottenuto un incarico lavorativo dal vescovo. Ma di chi è la responsabilità “morale” di tutto questo? Chi deve prendersi cura delle vittime, chi ha il compito di pensare al loro dolore, alla necessità di una riconciliazione e al risarcimento loro dovuto, di fronte alle loro vite deragliate, penalizzate, spesso appassite prima ancora di fiorire? È qui che si innesta la seconda parte della testimonianza di Peter, che pubblichiamo qui in una nostra traduzione dal tedesco: ripercorrendo i passi compiuti presso l’istituzione ecclesiastica per ottenere ascolto e riconoscimento, alla luce di quella dimensione pastorale del ruolo del vescovo che non ha incontrato, Peter propone, a partire dalle Scritture, un procedimento di denuncia sul piano religioso che tutte le vittime di abusi nella Chiesa possono fare proprio. (ludovica eugenio)

Tratto da: Adista Documenti n° 35 del 12/10/2024