Nella notte di Tbilisi protesta continua per un futuro europeo
In fila alla cassa del supermercato ci sono solo ragazzini, hanno il volto coperto da passamontagna, le maschere antigas che gli penzolano dal collo o sono legate sul braccio, alcuni portano la bandiera dell’Unione europea come un mantello. Il cassiere e la guardia giurata non hanno nulla da ridire quando quegli occhi chiaramente giovani, unico spiraglio su un’uniforme nera fino alle scarpe, comprano snack e coca-cola. Neanche le anziane con le foto degli arrestati sul petto e sulla schiena e le bandiere georgiane che spuntano dalla borsa. Quando si aprono le porte scorrevoli si sente il rumore della strada: il clangore di migliaia di voci che rimbalzano sui palazzi dell’ampio viale Rustaveli, i fischietti, le trombette da stadio e gli slogan gracchiati dai megafoni.
Tbilisi è in mobilitazione permanente. Ogni notte, da undici notti, migliaia di persone scendono in piazza per protestare contro il governo e l’esito delle elezioni, per l’adesione all’Ue e contro la Russia. «Per un futuro luminoso», dicono.
A pochi metri c’è l’imponente edificio del parlamento, teatro delle proteste contro l’esito delle elezioni che il 26 ottobre scorso hanno riconfermato alla guida del Paese il partito conservatore Sogno georgiano e sancito l’allontanamento del governo dagli impegni assunti per finalizzare l’ingresso definitivo nell’Ue, di cui la Georgia ha lo status di candidato. Sotto gli alti archi d’ingresso, memoria di quel classicismo socialista che ha modellato le capitali dell’Urss, delle pesanti piastre di ferro saldate tra loro sbarrano la strada. Nei momenti più concitati della notte i manifestanti sparano fuochi d’artificio e bombe carta contro gli archi e dalle piastre si affacciano gli scudi dei reparti anti-sommossa con la scritta Police, in inglese. Ma non esce e non entra mai nessuno.
Il parlamento georgiano è diventato una roccaforte monolitica come le parole del premier neo-eletto, Irakli Kobakhidze: «Non c’è nulla da discutere con chi è pagato dall’estero per destabilizzare il nostro Paese; la nostra volontà è di governare secondo il risultato delle elezioni, che hanno dato un quadro chiaro delle preferenze del popolo georgiano». Con il 53,9% dei voti, pari a 89 seggi su 150, Kobakhidze e il suo partito sono i padroni del parlamento. Ma fuori, ogni notte, c’è un assedio. Bambini portati dai genitori o in piccole bande, studenti dalle medie fino all’università, lavoratori del terzo settore, medici, avvocati, insegnanti, preti e tantissimi pensionati. Tutti uniti dall’aspirazione di voler scrivere la storia della Georgia contemporanea. Il partito di governo e alcuni funzionari russi hanno evocato lo spettro di «una nuova Maidan», parlando di ingerenze straniere che starebbero pilotando le proteste. Tuttavia, dalle manifestazioni è difficile parlare di una regia chiara, anzi si potrebbe dire che il problema dei manifestanti è opposto: in tanti mesi di proteste e nel picco degli ultimi giorni ciò che è emerso è l’assenza di una figura carismatica capace di convogliare questo capitale di malcontento.
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«I capi dell’opposizione fomentavano i manifestanti alle pratiche violente, ora che li abbiamo arrestati le violenze cesseranno» ha dichiarato Kobakhidze nella sua conferenza stampa quotidiana. Eppure le piazze sono ancora piene e ieri gli scontri sono stati molto accesi. «Mi dispiace per loro» dice Sopo, una ragazza che lavora in una galleria d’arte, «ma non sono i nostri capi, non siamo neanche d’accordo con la maggior parte delle cose che dicono». L’ultima frase è molto comune, la maggior parte dei manifestanti che abbiamo incontrato ha dichiarato di non sostenere i partiti d’opposizione. Li ritengono parte del sistema oligarchico e corrotto della Georgia ma, «almeno non ci vogliono portare lontano dall’Europa».
«Voi non capite» dice Tamara appoggiata a una ringhiera vicino agli idranti della polizia che ormai hanno invaso il viale, «per voi è scontato, certo lo sappiamo che anche l’Ue non è il paradiso, ma per noi la Russia è l’inferno, vuol dire tornare indietro di 30 anni». Un boato richiama la nostra attenzione, contro il parlamento è ricominciata il lancio dei fuochi d’artificio. «Venite con noi!» urla la folla contro i cordoni della polizia, schierata a sbarramento delle due stradine in salita che costeggiano l’edificio. Dall’altra parte gli agenti hanno il volto coperto, è quasi impossibile distinguerli l’uno dall’altro. Misure di sicurezza, dicono. Durante i primi giorni delle proteste su alcuni canali Telegram circolavano i volti di alcuni agenti dei reparti anti-sommossa con accanto il nome. Quando i lanci pirotecnici si fanno più intensi la schiera degli scudi della polizia si apre, ne escono correndo degli uomini vestiti di nero, senza segni distintivi: «vanno a caccia» come dicono i manifestanti. Caricano a gruppi le prime file del corteo, trascinano via chi possono e ritornano al sicuro dietro gli scudi delle guardie. «Russi di merda» urlano dei ragazzi. Altri lo scrivono sui muri con le bombolette: «No alla Russia, Russia fottiti, il vostro impero è finito…».
Da Piazza indipendenza, in fondo al viale, si sente un tambureggiare funesto e si vedono i lampeggianti che avanzano. Un altro reparto di agenti avanza sbattendo i manganelli sugli scudi scortato dagli idranti. Quando sono a una trentina di metri iniziano a sparare i lacrimogeni. Tra lacrime e conati di vomito il corteo indietreggia ma non si disperde. Gli uomini in nero catturano altre prede, alle prime luci dell’alba il bilancio è di 48 arresti e una decina di feriti tra cui un ragazzo in coma. Quando anche gli ultimi agenti si ritirano, un nutrito gruppo di netturbini con un gran numero di mezzi passa più volte su Viale Rustaveli. Al mattino le scritte sui muri sono sbiadite o cancellate con altra vernice, l’asfalto è bruciacchiato dai fumogeni e dai fuochi d’artificio ma pulito. L’ordine del governo è evidente: non lasciare traccia. Ma alla sera l’assedio al potere ricomincia.
Sabato Angieri - Il Manifesto, 9 dicembre 2024