domenica 12 gennaio 2025

Il suicidio dell’Europa


Cosa diavolo avessero in testa i cinque leader europei, quando hanno deciso di convocare il loro minivertice sulla “sicurezza” in quel villaggio ghiacciato della Lapponia dal nome impronunciabile – Saariselkä -, è difficile immaginarlo. Certo è che se si voleva proporre una metafora dello stato presente dell’Europa, una più efficace – e tremenda – di questa non si sarebbe potuta trovare: un lembo di terra sepolto nella neve e nel buio della notte polare – lì, tra il 6 di dicembre e il 7 di gennaio, non sorge mai il sole -, agli estremi confini del continente (e del mondo), 230 kilometri a nord del Circolo polare artico, temperatura media in questa stagione mai sopra i dieci sotto zero, 350 anime e cinque hotel di superlusso…

Cattivi presagi
Sul piano del simbolico, suona come una sorta di gelido e oscuro presagio, sul destino di un continente in preda alle pulsioni suicide di una delle classi politiche peggiori che si possano immaginare, qui rappresentata da cinque esemplari che non si sa se usciti da un cartoon natalizio (gli abbracci di rito al patetico Babbo Natale in divisa d’ordinanza che li accoglieva all’ingresso dello chalet) o da un racconto di Lovecraft (quelle facce livide per il freddo, vagamente spettrali)… Tre provenienti dal Grande Nord, due dal Profondo Sud, in mezzo niente visto il crack sull’asse di crisi che va da Parigi a Berlino, fino a ieri contrapposti – i cinque! – dalla questione dell’austerità e del rigore, oggi accomunati dalla guerra ai migranti e a Putin. Tutti/e di destra o di estrema destra. Leggetevi i curricula, per capire chi siano e cosa ci dicano.

L’estone Kaja Kallas, la più alta in grado, si porta dietro il viluppo di passioni tristi della tormentata storia del suo Paese: da una parte la vergogna per i periodi in cui servì la peggiore Germania (subito dopo la fine della Prima guerra mondiale quando gli estoni combatterono con i Frei Korps proto-nazisti contro l’armata rossa, poi durante la seconda guerra mondiale quando, occupata dai tedeschi, l’Estonia si classificò come primo Paese dell’Asse a essere dichiarato Judenfrei grazie anche all’attiva collaborazione della popolazione); dall’altra parte la voglia di vendetta per la durezza della successiva occupazione sovietica con la deportazione di un buon numero di famiglie, tra cui quella della Kallas stessa. E ci si chiede se fosse davvero il caso di affidare l’impegnativa gestione della politica estera dell’Unione alla rappresentante di un paese così marginale e dalla vita democratica tanto breve e tormentata.

Poi il padrone di casa,  Petteri Orpo “Ministro Capo della Finlandia”, che dall’estate del ’23 guida un governo di coalizione di cui fa parte, con peso, anche il Perussuomalaiset, il partito dei “Veri Finlandesi”, esplicitamente di estrema destra, nazianal-conservatore, violentemente anti-immigrazione, a lungo euroscettico. Un governo – quello di Orpo, definito come quello “più a destra nella storia del suo Paese”– che infatti si è distinto particolarmente per la chiusura delle frontiere settentrionali e per la pratica sistematica dei pushback, i respingimenti di persone con diritto alla protezione internazionale ai confini dell’Unione Europea, per permettere i quali ha anche modificato la Costituzione e sfidato l’Unione europea.

Secondo Lord dell’”asse del Nord” è il primo ministro svedese Ulf Kristersson, che guida un governo di coalizione in piedi grazie al sostegno esterno dei cosiddetti “Democratici svedesi”, formazione di ultradestra nei confronti della quale aveva funzionato fino al 2018 un unanime “cordone sanitario” dovuto alle posizioni visceralmente oltranziste dei suoi leader, che però proprio Kristersson aveva cancellato per vincere le elezioni del ’22 e insediarsi al governo. Severa austerità verso le cicale del sud e chiusura delle frontiere ai migranti ne sono i punti forti.

Al sud, infine, la coppia formata dalla ben nota Meloni (che  lì aveva in testa l’unico obiettivo di portarsi a casa l’OK alla politica di deportazione in Albania…) e dal greco Kyriakos Mītsotakīs, l’uomo delle grandi banche globali, della McKinsey e della destra economica europea, che si vanta di aver smantellato le politiche sociali avviate dal governo di Alexis Tsipras e di aver riconquistato i voti dei neofascisti di Alba dorata (non per nulla ha inzeppato il proprio governo di ministri provenienti dalla estrema destra autoritaria e xenofoba, orientandolo in senso ultranazionalista e vessatorio verso i migranti).

Un bel quintetto di anime nere, verrebbe da dire. Che, maestri nell’arte della sineddoche, pur costituendo una piccola parte degli Stati dell’Unione parlano come se fossero il tutto (“L’Europa è con noi” ha proclamato al ritorno Giorgia Meloni a proposito della sua aberrazione albanese).  E verrebbe da denunciarli per appropriazione indebita, se non fosse che forse siamo noi, che ce ne indignamo, a soffrire di un’illusione ottica, mentre loro, nella loro impudenza, già esprimono, o quantomeno anticipano, la realtà della nuova Europa che ci è venuta mutando sotto i piedi, prima lentamente, poi sempre più veloce. Ciò che Livio Pepino, su queste pagine, chiama “La fine del sogno europeo”.

Un’Europa ex origine asociale
In effetti l’ultima volta che, nella nostra area politico-culturale, abbiamo ragionato a fondo sulla vera natura dell’Unione Europea e sui suoi limiti è stato nel 2015, sotto l’effetto dello shock prodotto dall’esecuzione sommaria per strangolamento delle aspirazioni del neonato governo di sinistra in Grecia, come ricordiamo tutti: le riserve monetarie prosciugate dalla Bce per mano di Mario Draghi, i pensionati in fila davanti ai bancomat vuoti, gli ospedali senza medici e medicine, il referendum con cui a grande maggioranza i greci avevano detto no ai diktat della Troika considerato non un diritto politico ma una colpa di lesa maestà… Allora capimmo perfettamente come l’Europa nata a Maastricht dal primato del Mercato più che della Politica, non solo aveva assunto come propria costituzione materiale i principii di quel neoliberismo che andava sorgendo un po’ovunque in Occidente sulle ceneri del precedente grande “patto socialdemocratico”, ma che li aveva poi sviluppati nel tempo su una matrice per molti versi più rigida e socialmente feroce. Quella che va sotto il nome di “Ordo-liberismo”, in cui le logiche rigorosamente privatistiche delle relazioni sociali vengono garantite e rafforzate dall’intervento del potere pubblico che se ne fa garante ed esecutore, con una tipologia di “azioni” assai ampia, da parte di istituzioni e attori diversi, dalla Banca centrale, ai singoli Commissari dotati di rilevanti poteri, alla Commissione e al Consiglio, tutti comunque accomunati dalla scarsa anzi pressoché nulla responsabilità di fronte ai cittadini e agli elettori. Tutto ciò colpiva al cuore, con tutta evidenza, quello che era stato un pilastro fondamentale dell’idea di un’Europa Unita così come era stata formulata in quello che a ragione è indicato come il suo documento costituente – il  Manifesto di Ventotene, del 1941 -: il principio fondate della giustizia sociale. Del contrasto all’ineguaglianza e all’ ingiustizia. O, come scrissero appunto allora Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi – l’affermazione secondo cui “le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma — come avviene per le forze naturali — essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne sieno vittime”. Un tradimento delle origini di cui eravamo perfettamente consapevoli.

La fine della pax europea
Rimaneva tuttavia ancora in piedi – o così poteva allora sembrare – almeno un pezzo, o una traccia, del secondo pilastro indicato dai padri fondatori, e cioè il contrasto alla Guerra. Un’Europa unita in forma federale come antidoto alle sue antiche pulsioni militariste e belliciste. Un’Europa fattrice e fautrice di Pace, dopo tanto sangue versato sul proprio territorio. In effetti fino al 2014 l’Europa aveva svolto un ruolo di mediazione e di moderazione dei tentativi americani di usare l’espansione della Nato verso est al fine di destabilizzare e indebolire la Russia, preferendo una politica di “raffreddamento” delle tensioni alimentate soprattutto dai new members baltici ed est-europei.

Ancora al vetrice NATO di Bucarest dell’aprile 2008 – definito il più importante del dopoguerra – Bruxelles si era opposta alla proposta USA di invitare l’Ucraina nell’Alleanza, consapevole del carattere di “provocazione” che ciò avrebbe rappresentato (allora il Paese era violentemente agitato dalla lunga coda della “rivoluzione arancione”). E poi, nel 2014, nel corso degli eventi, tanto tragici quanto oscuri, di piazza Maidan a Kiev, si era posta in una posizione di dissociazione, sia pur tacita, rispetto alla forzatura americana verso quello che si sarebbe configurato come un vero colpo di stato. Esemplare l’espressione volgare di Victoria Nuland nella telefonata con l’ambasciatore Pyatt, diventata virale dopo la sua pubblicazione su YouTube: “Fuck the EU” (gli europei vadano a farsi fottere).

La Nuland non era una qualsiasi cafona di passaggio, era la plenipotenziaria per le questioni dell’Est e in particolare per l’Ucraina da parte dell’amministrazione americana. E quella telefonata non testimoniava solo della tradizionale ostilità e diffidenza degli americani nei confronti degli europei considerati non abbastanza affidabili e determinati, e mal sopportati fin dal momento della nascita dell’Euro vissuta come minaccia al monopolio del dollaro. Ma metteva anche a nudo il ruolo di vera e propria cabina di regia svolto dalla coppia Nuland-Pyatt nella catena di eventi che dalle manifestazioni antigovernative in Piazza Maidan, passando per la strage del 20 febbraio, fino alla destituzione del presidente in carica Viktor Janukovič, li vide particolarmente attivi nell’orchestrare l’azione di sostituzione della leadership a Kiev. Un impegno condotto fin nei particolari, che va dal coordinamento tra i gruppi di estrema destra presenti sulla piazza (i paramilitari di Pravi Sektor e i neonazisti di Svoboda in prima linea), alla posizione da assegnare ai loro leader (Oleh Tyahnybok in particolare, alcuni dei cui uomini saranno in seguito sospettati di aver fatto parte del gruppo di cecchini che compì la strage), fino alla scelta del successore Arseny Yatsenyuk chiamato amichevolmente Yats nella conversazione (un’accurata ricostruzione nel saggio accademico del prof. Ivan Katchanovski dell’Università di Ottawa).

Se si considera che gli europei erano comunque orientati verso un’altra candidatura nel caso di sostituzione del presidente in carica, e soprattutto che tendevano ad attestarsi sull’accordo in dieci punti siglato nella notte del 21 febbraio tra Janukovič e i leader dell’opposizione alla presenza tre ministri degli esteri dell’Unione europea – il polacco Sikorski, il francese Fabius e il tedesco Steinmeier -, accordo poi travolto dall’azione dal basso dei manifestanti più intransigenti che determinò la fuga del Presidente con molti suoi ministri e dal voto immediato del Parlamento che ne certificava la destituzione, si ha la misura di quanto l’Europa sia stata in effetti estromessa dalla gestione del punto più drammatico della crisi Ucraina. Dopo di allora, e la conseguente occupazione russa della Crimea, tutto sarebbe stato diverso.

L’ésprit de commerce tedesco
Il merito principale di questa politica europea di appeacement sul fronte nord-orientale, il più pericoloso nella prospettiva della precipitazione di un possibile conflitto generale (diverso il discorso sulla ex-Jugoslavia dove l’Europa ebbe invece un ruolo ben peggiore), è soprattutto della Germania. Da decenni la potenza che geopolitica ed economia avevano posto come baricentro continentale, con responsabilità superiori alle altre, aveva assunto nei confronti dell’universo che si estende sul versante orientale un atteggiamento di cauta apertura e di progressiva cooperazione economica secondo una logica di coesistenza pacifica. La spingeva in questa direzione non solo il più che giustificato senso di colpa per i misfatti compiuti dai propri eserciti negli anni quaranta, e il desiderio di cancellare l’immagine dei tedeschi come feroci aggressori da parte dei popoli che ne erano stati vittime, ma anche un ordine più complesso di ragioni, culturali, strategiche ed economiche. In termini generali una sorta di sguardo stereoscopico ben radicato nello spirito tedesco, volto a bilanciare il fascino oceanico dell’Occidente con l’attrazione ctonia dei territori orientali. La diade mare-terra concettualizzata da Carl Schmitt. Velocità e profondità. Zivilization e Kultur, in un equilibrio simmetrico necessario per mantenere una propria autonomia strategica. E poi, all’inizio, la preoccupazione, prevalentemente tattica, di aprire la strada alla possibile riunificazione delle due Germanie, che aveva prodotto l’Ostpolitik inventata da Willi Brandt fin dall’inizio degli anni ’70, proseguita poi dal cancelliere Schmidt e dallo stesso Helmut Kohl, convinti com’erano che un clima di buon vicinato con l’Unione Sovietica fosse necessario per favorire le proprie speranze.

Una prospettiva che tuttavia non si esaurì col raggiungimento dell’obbiettivo della riunificazione, ma proseguì con i successori Gerhard Schröder, e con la stessa Angela Merkel, nella convinzione, questa volta, che fosse nell’interesse dell’economia tedesca (e in subordine europea) una sia pur sorvegliata integrazione con i mercati, e soprattutto con la fornitura di materie prime e di energia di cui era ricca la Russia. Convinzione a sua volta, sostenuta dalla visione strategica del Wandel durch Handel (“cambiamento attraverso il commercio”) e di “una specifica consequenzialità fra commercio, creazione della classe media e democrazia” come veicolo di democratizzazione di quelle terre “irredente”. Oltre che dall’evidenza empirica di una potenziale virtuosa sinergia tra l’abbondanza di capitali e di alta tecnologia tedesca e la disponibilità di risorse naturali a basso costo e di una domanda in possibile crescita dell’area russa: ciò che infatti ha permesso alla locomotiva tedesca di correre trainando buona parte dell’Europa.

L’ésprit de conquête atlantico
Tutto questo ha subito una brusca battuta d’arresto col 2014. Ed è crollato definitivamente nel febbraio del 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina. La Merkel, che nel 2008, subito dopo l’avvio della guerra in Ossezia del Sud, aveva invocato una linea moderata nei confronti di Mosca, e che nel giugno del 2010 aveva ricevuto nella residenza di Meseberg il presidente russo Medvedev per risolvere il conflitto in Transnistria, dovette accettare invece le sanzioni imposte alla Russia dopo l’invasione della Crimea. Svolse ancora un ruolo di rilievo nella stipulazione degli accordi di Minsk, ma non poté far nulla per farli rispettare, e dovette rassegnarsi a vedersi passare sotto il naso i massicci flussi di armamenti con cui la Nato preparava l’Ucraina al successivo conflitto. Mentre spetterà al suo successore Viktor Scholz, subito dopo il famigerato 24 febbraio ’22,  contribuire a smantellare l’intera infrastruttura di accordi, rapporti politici e culturali, contratti di collaborazione industriale e commerciale (alcuni estremamente vantaggiosi) che si erano stratificati nel tempo, cancellando in un attimo cinquant’anni di politica tedesca.

E’ difficile capire che cosa avesse in testa la leadership europea quando in un batter d’occhio ha deciso di buttare a mare tutt’intera la tradizione tendenzialmente pacifica del proprio continente. Intendo la leadership dei principali Paesi europei, quelli fondatori (per baltici, scandinavi e polacchi non poteva esserci di meglio), che si è lasciata afferrare, senza la minima resistenza, dal maelstrom della guerra, rinunciando a svolgere un qualsiasi ruolo autonomo (per impedirne l’esplodere, prima, per tentare ogni via diplomatica per fermarla, poi), accettando di fatto che l’intera Unione europea fosse assorbita pressoché senza residui da un’alleanza militare come la Nato, a indiscutibile egemonia americana. Piegandosi all’esclusiva logica delle armi, del “sempre più armi” come segno di fedeltà. Allineandosi a una politica di sanzioni senza precedenti per estensione e durezza, incuranti degli effetti boomerang di esse. In pratica cancellandosi come player non solo sullo scacchiere globale ma nell’ambito della propria stessa area continentale: quella che della guerra era ed è destinata a pagare il prezzo più alto, in termini sia di sviluppo economico che di rischio militare.

Certo, l’assunzione di una decisione così grave e gravida di conseguenze nefaste senza la minima consultazione popolare e la considerazione della volontà dei propri cittadini, è stata resa possibile e facilitata dall’architettura scombinata delle istituzioni europee, sbilanciate fortemente sull’autonomia degli esecutivi. Sono infatti i governi dei singoli Paesi a comporre il Consiglio il quale a sua volta indica il nome del Presidente della Commissione europea che dovrà poi essere approvato dal Parlamento ma nell’esercizio del proprio mandato dovrà rispondere minimamente delle proprie decisioni. Ed è ancora il Consiglio a nominare l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che è anche vicepresidente della Commissione, mentre i nomi dei Commissari sono indicati dai singoli governi (ancora gli esecutivi!) e le deleghe assegnate dalla Presidente della Commissione. Dunque una struttura solo in minima parte controllata e controllabile “dal basso”, sostanzialmente in mano alle élites di governo. Tutto vero. Ma ciò non fa che rendere più drammatica la domanda di cui sopra: cosa passava per la testa di quell’élite, che per definizione dovrebbe essere meno propensa alle ondate emotive e più “razionalmente calcolante”? Quali argomenti possono averne suggerito la logica suicidaria che l’ha portata prima ad astenersi dal minimo tentativo di evitare il precipitare della situazione e poi, dopo la decisione criminale e altrettanto sucida della leadership russa di varcare il Rubicone dell’invasione, a escludere ogni possibile ruolo di mediazione per fermare le ostilità o quantomeno limitarne l’incrudelimento, come ci si sarebbe potuto aspettare dalla tradizione europea? E anzi ci si è gettati a corpo morto nell’escalation che ne è seguita.

Determinanti di senso dell’insensato
La nube tossica dei commenti della prima ora da parte delle massime autorità europee (la Presidente della Commissione Ursula von der Layen, il Presidente del Consiglio Jean Michel, l’Alto Rappresentante per la politica estera Josep Borrel, la Presidente del parlamento Roberta Metsola), tutti perfettamente allineati con i commenti del Segretario Generale della Nato Stoltemberg e del Segretario di Stato americano Blinken, riproducono, con minime varianti, gli stessi luoghi comuni. Sintetizzabili sostanzialmente in due punti, peraltro tra loro clamorosamente contraddittori: 1) L’idea (pessimistica) che l’invasione dell’Ucraina non fosse che il primo passo di una strategia neo-imperiale russa di espansione ad ovest capace di minacciare l’intero continente (da Kiev a Lisbona, sparò grosso qualcuno). 2) La convinzione (ottimistica) che grazie all’effetto congiunto di un massiccio invio di armi e di pesanti sanzioni la Russia sarebbe implosa e il potere di Putin (individuato come unico dark lord colpevole di tutto), sarebbe finito.

Ora, come ognuno può vedere, il combinato disposto dei due assunti dà luogo a un dispositivo retorico dal forte impatto emotivo ma segnato da un evidente cortocircuito logico, in cui una proposizione contraddice l’altra e viceversa. Se fosse vera la volontà russa di ”conquistare l’Europa” dal Dniepr all’Atlantico avendone potenzialmente la forza, allora sarebbe impensabile provocarne il collasso militare ed economico con la semplice fornitura di armamenti all’Ucraina sia pur accompagnata da sanzioni economiche ma sarebbe stato necessario contrastarla direttamente da subito in uno scontro totale; se invece si fosse davvero convinti che sarebbe sufficiente armare l’esercito ucraino e stare a guardare i risultati delle sanzioni per battere sul campo gli invasori in pochi mesi con una vittoria finale e definitiva, allora se ne dovrebbe concludere che la Russia di Putin non è quel pericolo mortale per tutti che si evocava, per il semplice fatto che non avrebbe avuto, fin dall’origine, la forza e le risorse in uomini e mezzi per dilagare oltre quel confine interno ucraino che separa il Donbass dal resto del Paese e che i russi non riescono se non a costi altissimi ad avvicinare. Dunque, per basse che siano le capacità cognitive della classe dirigente europea, esse non possono essere così infime da farne dipendere i comportamenti e le decisioni da argomenti tanto inconsistenti. Le “determinanti di senso” del loro agire – per usare una formula weberiana – devono essere state altre. O quantomeno una variante di queste meno rozza.

E’ possibile – questo sì -, che prestando orecchio alle Sirene che cantavano dalle bianche scogliere di Dover, gli estenuati governanti europei abbiano sottovalutato le capacità dei russi di resistere sul medio-lungo periodo a una guerra di logoramento. E che dunque si siano illusi che non in pochi mesi, ma in qualche anno, alzando sempre più il peso degli armamenti messi in campo, e dunque i costi della guerra, si sarebbe forse potuto sperare in una sorta di implosione di quello che rimaneva del sistema imperiale post-sovietico, aprendo una prateria in cui arraffare gratuitamente o quasi quelle materie prime e l’energia che prima avevano dovuto, sia pur a prezzo favorevole, acquistare. Una sorta di neo-colonialismo post-imperiale, avvolto in un involucro spesso di cinismo (che ogni mese in più di “attrito” significasse la morte di migliaia di ucraini – e simmetricamente di russi – poco importava). E animato da una dose impressionante di azzardo (la scommessa era che a ogni scatto in avanti nell’escalation l’altra parte fosse tanto “ragionevole” da non superare nella risposta la soglia dell’uso dell’arma nucleare, un po’ come nel gioco mortale del James Dean di Gioventù bruciata): un azzardo, ovviamente, gravido di stupidità, perché nulla impedirebbe a una Russia condotta sull’orlo dell’abisso di praticare la logica del “muoia Sansone con tutti i filistei” e di impiegare l’arma “fine del mondo” che pur possiede in abbondanza, ma tant’è. La ludopatia è una patologia che non ammette capacità di ragionamento.

Un ruolo di rilievo deve averlo avuto anche l’industria delle armi, la cui capacità di convincimento è pari alla quantità di miliardi che è in grado di movimentare e la cui lobby tiene al guinzaglio corto una buona parte dei decisori pubblici di qua e di là dell’Atlantico. Sono gli unici che hanno tratto vantaggio dal massacro ucraino, con fatturato, utili netti, capitalizzazione in borsa schizzati alle stelle nell’ultimo triennio: si pensi a un colosso come la tedesca Rheinmetall (carri armati e veicoli militari), le cui azioni tra il 2021 e il 2024 sono cresciute del 646% (da 83,6 a 819,5 nilioni di euro); o alla norvegese Kongsberg (componenti per aerei da guerra e missili), +177%; alla giapponese Mitsubishi Heavy Industries (oltre a tecnologie per l’acqua calda e la climatizzazione, aerospazio, carri armati, navi da guerra) +169%; per non dimenticare le “nostre” Leonardo(+72%), Avio (+64%), Fincantieri (+58%)… Sono “l’armata internazionale dei guerrafondai” di cui ha parlato in questi giorni Domenico Quirico, “con l’arsenale gonfio di miliardi e di bugie” che non si sono solo arricchiti con la rendita della “guerra grossa, ricca, quella … delle tonnellate di munizioni (e di uomini) consumate in poche ore” che hanno alimentato, ma anche sulla pianificazione negli anni, forse nei decenni prossimi, di una spesa militare crescente, per cui non basta più nemmeno il 2% del Pil, si deve salite al 3%, poi al 4%, forse al 5%…

  Economia di guerra
Ed è questo il terzo ordine d’idee che deve aver invaso – e offuscato – la mente dei nostri governanti negli ultimi anni. La prospettiva di una riconversione sistemica dell’economia europea – e di questa nel quadro complessivo di quelle occidentali – in economia di guerra. Verso un modello economico, cioè, che ridefinisce la propria scala di priorità intorno all’opzione bellica posta tra i primi punti della propria agenda. D’altra parte non lo nascondono nemmeno. Nonostante tutto ciò configuri una svolta epocale, di quelle che stabiliscono lo spartiacque tra livelli di civiltà, il concetto è scivolato quasi silenziosamente al centro della governante occidentale, senza uno straccio di dibattito serio. “Mettere l’economia in assetto di guerra” è stata la direttiva riassunta esplicitamente dal presidente del Consiglio d’Europa uscente Charles Michel per indicare la linea ribadita con Ursula von der Leyen al momento della conferma alla presidenza della Commissione europea dopo le elezioni di maggio 2024. E Mario Draghi, che già nel marzo del ‘22, a margine del Consiglio europeo a Versailles sulla guerra in Ucraina, aveva anticipato la necessità di adattarsi a una logica di war economy, nel suo recente Rapporto redatto su incarico della von der Leyen, ha ulteriormente enfatizzato la prospettiva di una crescita degli investimenti nel settore della difesa, da ottenere “orientando in tal senso le politiche di prestito della Banca europea degli investimenti” e da considerare come condizione essenziale perché l’Ue possa “tenere il passo con i suoi concorrenti globali”.

Questa svolta nel senso di un’inedita militarizzazione dello spazio economico europeo figura tra i primi punti (l’altro riguarda il green deal, ma suona più come residuo di un’idea già obsoleta che come vera e propria priorità) di un documento programmatico come questo di Draghi,  orientato a un cupo pessimismo sulla possibilità dell’Europa di sopravvivere alla crisi della propria economia. Per certi versi a una vera e propria disperazione. L’ipotesi di un volume d’investimenti da 800 miliardi di euro all’anno, il doppio del vecchio Piano Marshall in punti di Pil, assomiglia più che a una possibile soluzione all’heideggeriano “solo un dio ci può salvare” (infatti nessuno l’ha preso sul serio). E forse è proprio questa, della disperazione, la chiave per capire l’atteggiamento di una (misera) classe politica talmente avvolta nel viluppo di contraddizioni che non riesce più a controllare né tantomeno a risolvere (la crisi climatica, l’enorme debito pubblico e privato accumulato, la penuria di materie prime e di energia, la perdita di egemonia sul contesto globale…), da essere tentata di rovesciare il tavolo su cui gioca la propria partita mortale. Un po’ come quei giocatori che prima di subire lo scacco matto danno il giro alla scacchiera. E cosa, meglio della Guerra, può generare questo scarto nelle regole del gioco? Questo passaggio a un tempo nuovo – il “tempo della Guerra”, appunto – in cui non valgano più le vecchie responsabilità cui non si era stati all’altezza, e ognuno può tentare di giocarsi le proprie chances col grado di libertà che solo il caos può consentire.

Muoia Sansone con (quasi) tutti i filistei
Non so quanto questo mood grondante thanatos appartenga ai pensieri consci dell’élite governante che siede a Bruxelles, o se non operi piuttosto nella forma dell’inconscio freudiano, producendo tic, lapsus, atti mancati ma restando al di sotto della linea della coscienza. E limitandosi a suggerire un opaco conformismo che rende ognuno di essi desideroso di “essere come tutti” (i propri “colleghi”). Ne fa fede – di questo conformismo avvelenato – un documento a mio avviso sconvolgente, votato a maggioranza dal neonato parlamento europeo il 28 novembre (390 favorevoli, 135 contrari, 52 astenuti), e contenente l’equivalente di una dichiarazione di guerra rivolta non solo alla Russia ma a una parte consistente del mondo. Un documento verbosissimo, pleonastico, dove in 21 premesse e 34 punti si intimava alla Russia di ritirare “incondizionatamente tutte le forze e le attrezzature militari dall’intero territorio”, col contemporaneo rilascio di tutti “i prigionieri di guerra ucraini detenuti illegalmente” e il risarcimento all’Ucraina di tutti “i danni causati alla sua popolazione, alla sua terra, alla sua natura e alle sue infrastrutture” (col risultato di escludere a priori l’Europa da qualsiasi funzione di mediazione in vista di una possibile trattativa di pace); si impegnavano i massimi rappresentanti dell’Unione Europea “a mantenere il loro fermo sostegno all’Ucraina” aggiungendo che – testuale! – anche “il presidente eletto degli Stati Uniti dovrebbe fare altrettanto”; si proclamava che “qualsiasi esito che non sia la vittoria dell’Ucraina” sarebbe considerato “una sconfitta strategica sia per l’Europa che per gli Stati Uniti, e avrebbe conseguenze di vasta portata per la loro sicurezza”; si condannava “con la massima fermezza” la Cina per la “fornitura di beni a duplice uso e di prodotti militari alla Russia” sottolineando che un rifiuto di cessarne “comprometterebbe gravemente le relazioni bilaterali UE-Cina” diffidando nel contempo i singoli Stati europei da un’eccessiva dipendenza dalla Cina che ne minerebbe “la credibilità quanto alla capacità di salvaguardare la propria sicurezza nazionale e l’UE nel suo complesso”; si sottolineava, di conseguenza, “la necessità di una strategia globale dell’UE per affrontare le più ampie implicazioni delle alleanze autoritarie, in particolare tra Russia, Corea del Nord, Bielorussia, Iran, Cina e altri Stati che mettono a repentaglio l’ordine internazionale basato su regole (in pratica buona pate del mondo non NATO); si approvava entusiasticamente “la decisione del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden di consentire all’Ucraina di utilizzare sistemi missilistici avanzati su obiettivi militari situati in territorio russo”, e si invitava “l’UE e i suoi Stati membri a fare altrettanto, cioè a  “rafforzare ulteriormente il loro sostegno militare all’Ucraina, anche attraverso la fornitura di aerei, missili a lungo raggio, compresi i missili Taurus” deplorando – cosa inaudita! – “il recente colloquio telefonico del cancelliere tedesco con Vladimir Putin”. Nel leggerlo, quel documento che porta l’ermetica sigla “P10_TA(2024)0055”, è difficile sottrarsi alla terrificante sensazione che siamo già, a nostra insaputa, coinvolti nella Terza guerra Mondiale. E vien da chiedersi se davvero quegli oscuri peones che l’hanno approvata “sanno quel che si fanno”.

Chi invece sa benissimo cosa fare e cosa pensare, è la piccola schiera dei grandi burattinai, gli dei absconditi che celati alla vista di noi mortali dalle distanze siderali che separano le loro fortune da quelle dei comuni terrestri, disegnano in solitudine le sorti a venire dell’umanità. Da qualche tempo mi è sorto maligno il dubbio – giusto un tarlo, per ora, forse frutto di un pensiero patologico -, che neppure loro – anzi, forse loro per primi – non vadano immuni dall’opzione “fine del mondo” come possibile soluzione all’impasse attuale. In fondo, sanno benissimo che la loro vertiginosa ascesa degli ultimi decenni ha, per molti versi, (quasi) raggiunto il tetto. Che il loro celeste impero poggia su un’iperbolica bolla finanziaria – bolla di carta, dunque – a sua volta alimentata da un gigantesco debito (degli Stati, dei cittadini, delle grandi macchine che muovono il denaro). Che l’espansione del loro potere, in particolare della famelica capacità estrattiva di ricchezza che non può mai fermarsi pena il rinculo, ha dei limiti. Limiti fisici: il pianeta resiste, con i propri mutamenti climatici. Demografici: la quantità di popolazione da “mettere al lavoro” non solo come produttori ma come consumatori, non è dilatabile ad libitum. Geopolitici: lo “spazio liscio” della prima globalizzazione li aveva illusi, ma ora è evidente che ci sono spazi , anche ampi spazi, -“spazi imperiali” -, che non sono facilmente penetrabili. Molti di questi ospitano quelle “terre rare”, quei materiali fino a ieri marginali ma oggi vitali per le nuove tecnologie, per appropriarsi dei quali non basta la vecchia politica delle cannoniere. In questo stadio, la tentazione della “grande fiammata”, dello strike che in un colpo solo, sia pur catastrofico, riallinea tutte le pedine, rende di nuovo liscio lo spazio prima striato e sezionato, rimette in moto la pompa aspirante della depredazione globale, è davvero così impossibile da non poter neppur essere concepita? In fondo per gente che vive ormai da anni in un iperuranio dorato, senza rapporti col mondo di sotto che non siano di tipo predatorio, che cosa sarebbero qualche decina di bombe atomiche, qualche milione di morti, qualche centinaio di città cancellate? Tutto sommato un prezzo accettabile, se necessario per garantirsi la propria riproducibilità come élite dominante, in un mondo in cui non funziona più neppure il terrore dell’olocausto nucleare, relativizzato ora dalla possibilità di selezionarne socialmente le possibili vittime e i probabili sopravvissuti. Il che spiegherebbe la nonchalance con cui si è trattata in questi anni la minaccia del ricorso all’arma nucleare nei quartier generali in cui si decidono le guerre combattute (per ora) dagli altri ed eventualmente, tra poco, dai “nostri”.

Lo so che è un pensiero impensabile, questo, che ci sbalza in uno spazio totalmente altro da quello in cui abbiamo vissuto e viviamo la nostra quotidianità politica. Uno spazio in cui i problemi dell’Europa di cui si è parlato sopra si relativizzano, perché diluiti in uno scenario che pone il Vecchio Continente nell’ambito delle variabili dipendenti. Ma, io credo, è un pensiero con cui dobbiamo, almeno come esercizio mentale, provare a misurarci. Se non altro per non doverci trovare spiazzati, nel momento in cui, almeno in  parte, uno scenario simile dovesse materializzarsi. E non dover scoprire che mentre ci accanivamo a pensare al Che fare con l’Europa cadente del nostro presente – Uscirne? Restarci? Provare a cambiarla? Come? – eravamo già in una situazione di Europa caduta.

Marco Revelli - Volerelaluna, 2 gennaio 2025 


Marco Revelli
E' titolare delle cattedre di Scienza della politica, presso il Dipartimento di studi giuridici, politici, economici e sociali dell'Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro", si è occupato tra l'altro dell'analisi dei processi produttivi (fordismo, post-fordismo, globalizzazione), della "cultura di destra" e, più in genere, delle forme politiche del Novecento e dell'"Oltre-novecento". La sua opera più recente: "La sinistra impossibile da spiegare a mia figlia". È coautore con Scipione Guarracino e Peppino Ortoleva di uno dei più diffusi manuali scolastici di storia moderna e contemporanea (Bruno Mondadori, 1ª ed. 1993).