ESODO Osservatorio
Religione fede politica
LUCI NEL BUIO
7 ottobre 2023, cartina di tornasole del dialogo
Sono trascorsi dieci mesi dal 7 ottobre 2023. Una data spartiacque, da tanti punti di vista, a partire dalla quale i processi dialogici fra ebrei e cristiani si sono drammaticamente complicati, messi alla prova come mai finora, mostrando tutte le loro fragilità. Una tragedia avventuta nel cuore della celebrazione di Simchat Torah, esattamente mezzo secolo dopo l’attacco a sorpresa delle forze arabe a Yom Kippur nel 1973, che ha prodotto uno shock collettivo indescrivibile, generando angoscia negli ebrei di tutto il mondo. Questa l’ottica con cui scegliamo di muoverci, senza sottovalutare ovviamente l’impatto enorme della reazione militare dello Stato d'’Israele, ma senza occuparcene qui. Il focus sarà dunque su due mondi religiosi sembrano essere arretrate di decenni”. La percezione ebraica dell’accaduto traspare, ad esempio, dall’intervento del rabbino Pinchas Goldschmidt in occasione della consegna del Premio Carlo Magno, ad Aachen, il 9 maggio scorso: un uomo che, presidente della Conferenza rabbinica europea e già rabbino capo di Mosca, nel 2022 ha lasciato la Russia per protesta contro l’aggressione dell’Ucraina. Durante il suo accorato appello cuntro l'antisemitismo che sta minacciando i valori europei, Goldschmidt ha evidenziato che “l’antisemitismo non è un problema degli ebrei. È un problema delle società in cui si diffonde. È un sismografo della loro situazione”. Difficile dargli torto, purtroppo.
Il fatto è che ora, dal 7 ottobre, il dialogo cristiano-ebraico ha assunto un’altra dimensione, forse è mutato definitivamente il suo paradigma; e si è fatto sicuramente più esigente e più cruciale. Ma ci arrischiamo a immaginare che dalla crepa venutasi a creare - di cui esistono numerosi indizi, a partire dalle frizioni tra la lettura dei rabbini italiani sul dramma del 7 ottobre e la sua percezione da parte di tanti cristiani - potrà filtrare una luce inedita, se chi ne è coinvolto troverà la forza di mettersi in gioco realmente. E di inchinarsi di fronte al dolore dell’altro, onorando l’autorità delle vittime e dei sofferenti: di tutti, non solo di quelli “dalla nostra parte”.
Lo scriveva chiaramente, oltre vent’anni fa, il cardinal C. M. Martini da Gerusalemme, riferendosi al conflitto israelo-palestinese: “Certamente l’odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori. Vi sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che, mentre tiene in vita, insieme uccide, Per superare l’idolo dell’odio e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di sé stessi, quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione”.
È come se, all’improvviso, la valigetta faticosamente riempita di attrezzi per aggiustare una relazione avvelenata da secoli di antisemitismo e pregiudizio antiebraico risultasse vuota o piena di arnesi inadeguati a fronteggiare una situazione dannatamente complicata. Gli israeliani sono stati vittima di attentati terroristici disumani e su larga scala, ma il loro governo ha adottato una reazione militare spropositata e, a oggi, confusa nei suoi obiettivi finali: distruggere Hamas, e poi? Che status per Gaza? Quale futuro per la popolazione della Striscia? Quale rapporto tra Gaza e la Cisgiordania?
I palestinesi sono finiti sotto la trappola violenta e liberticida del terrorismo islamista e ora pagano un ulteriore prezzo, osservando impotenti la distruzione sistematica di case, scuole, ospedali da parte dell’esercito israeliano.
Tutto questo è politica, certo, e non teologia del dialogo interreligioso o ebraico-cristiano. Ma è una politica così pervasiva e penetrante che incide anche sulle coscienze, le ferisce, le condiziona, le mobilita. Non possiamo non tenerne conto, né chiudere gli occhi. Non lo fanno gli ebrei israeliani che chiedono solidarietà e sostegno; non lo fanno i palestinesi, cristiani o musulmani che siano, che mostrano le immagini raccapriccianti di decine di migliaia di vittime civili.
Entriamo, insomma, in una fase nuova del dialogo interreligioso, drammaticamente difficile e dolorosa, che non può ignorare il grido di dolore che arriva da popoli e comunità di fede ferite e disperate. E allora, ciò che noi chiamiamo ottimisticamente “dialogo” sarà un balsamo utile a lenire queste ferite o, al contrario, un acido che le rende ancora più dolorose e insopportabili?
Innegabilmente, occorrerà tempo: quanto è accaduto, tremendo, si è rivelato anche un banco di prova per il dialogo, una cartina di tornasole della sua verità. Crediamo sia lecito sostenere che un evento così traumatico come la mattanza di ebrei in Israele di quella mattina da parte di Hamas, fra i suoi esiti, ha avuto quello di far emergere le contraddizioni, i problemi sottaciuti ma già presenti nell'odierna fase del dialogo fra cristiani ed ebrei. Che resta tutt’ora un fenomeno di élite, non ancora penetrato nel tessuto vitale delle comunità cristiane.
Certo, dialogare non significa avere sempre lo stesso punto di vista su ogni argomento: ad esempio, come sa bene chi ha scelto di impegnarsi in questo segmento del dialogo, la visione teologica sulla terra d’Israele non può che essere alquanto diversa, fra cristiani ed ebrei (si veda, ad esempio, la patristica Lettera a Diogneto). Qui sussistono differenze insormontabili: ma il dialogo non è un’omologazione forzata, l'unità non è uniformità, e il suo obiettivo non può essere l’azzeramento delle differenze. Il che vale sempre, ma a maggior ragione per le relazioni cristiano-ebraiche, vitali per i cristiani ma non (o molto meno) per gli ebrei: è il tema, assai discusso e ben noto a quanti si occupano di questo tema, dell'asimmetria.
Ma dalla crepa venutasi a creare - di cui esistono ripetuti indizi, a partire dalla percezione dei rabbini italiani rispetto alle parole di papa Francesco sul conflitto israelo-palestinese - potrà filtrare una luce inedita, se chi ne è coinvolto troverà la forza di mettersi in gioco realmente. Di inchinarsi di fronte al dolore dell‘altro, e di onorare l’autorità dei sofferenti: di tutti, non solo di quelli “dalla nostra parte”. È un dialogo a caro prezzo, sì, anche perché, sul versante cristiano, la sua posta in gioco è, per i eristiani stessi, “l’acquisizione della coscienza dei loro legami con il gregge di Abramo e delle conseguenze che ne derivano sul piano dottrinale, per la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della chiesa è persino per la sua stessa missione nel mondo di oggi” (C. M. Martini).
Una centralità confermata anche dalla sentita Lettera ai fratelli e alle sorelle ebrei di Israele di papa Francesco, del 2 febbraio 2024, in cui si legge fra l’altro: “In tempi di desolazione, abbiamo grande difficoltà a vedere un orizzonte futuro in cui la luce sostituisca l’oscurità, in cui l'amicizia sostituisca l’odio, in cui la cooperazione sostituisca la guerra. Tuttavia, noi, come ebrei e cattolici, siamo testimoni proprio di un simile orizzonte. E dobbiamo farlo, cominciando innanzitutto proprio dalla Terra Santa, dove insieme vogliamo lavorare per la pace e per la giustizia, facendo il possibile per creare relazioni capaci di aprire nuovi orizzonti di luce per tutti, israeliani e palestinesi”.
In realtà, è legittimo sostenere che l'itinerario del dialogo cristiano-ebraico sia appena iniziato (dopo diciannove secoli di insegnamento del disprezzo, come lo definiva Jules Isaac, sarebbe persino strano non fosse così): c'è chi ritiene con buone ragioni che, in realtà, siamo ancora in una fase di pre-dialogo. Come scrive il cardinal Kasper, “non dobbiamo accostarci” a tale dialogo “con aspettative ingenue e miranti unilateralmente all’armonia... è un dialogo difficile e che tale rimarrà, un dialogo nel quale ciascuno deve guardarsi dal tentativo di assorbire l’interlocutore. Siamo ancora ben lontani da una chiara e organizzata teologia cristiana del giudaismo. Del resto, come ammetteva qualche anno fa l'allora rabbino capo di Milano, Giuseppe Laras, nonostante i passi avanti compiuti nel postconcilio, “è difficile negare che da parte del mondo ebraico, rabbinico e non rabbinico, permanga una certa resistenza, una difficoltà a entrare in relazione con il cristianesimo nel quadro di iniziative di dialogo: e questo per una serie di motivi, alcuni chiari ed evidenti, altri solo avvertiti ma non per questo meno condizionanti”.
Se il dialogo è il rischio del non ancora e dell'altrove, non nega le differenze e non le annulla; anzi, richiede le differenze e le mantiene, ma abbatte gli steccati e costruisce ponti sulle voragini che abbiamo scavato per separare noi dagli altri e gli altri da noi. E, infine, si fa in due: come il tango, recita un proverbio argentino. Del resto, come ripeteva un maestro come è stato Paolo De Benedetti, possiamo considerare il dialogo cristiano-ebraico come “un balbettio necessario”: solo un balbettio, sì, ma “necessario in quanto dialogo della Chiesa con sé stessa al cospetto di Israele”.
Paolo Naso e Brunetto Salvarani