Dazi e controdazi, a rimetterci sono sempre i poveri
L’aveva promesso e l’ha fatto. Anzi, no. Tutto rinviato, tranne che per la Cina (tariffe al 10% già in vigore). Parliamo dei dazi di Trump, quelli che dovrebbero far tornare grande l’America. La mezza marcia indietro rispetto a Canada e Messico è stata indotta certamente dalla reazione rapida e decisa dei due paesi confinanti, che a poche ore dalla firma dell’ordine esecutivo hanno fatto sapere che sul tavolo ci sono anche loro imposte sui prodotti made in Usa (Ottawa ha parlato di tariffe del valore di 125 miliardi di dollari). Primi effetti immediati di queste decisioni e contro-decisioni? Borse di tutto il mondo sotto pressione (c’è il timore di una nuova fiammata inflazionistica), crescita del prezzo delle materie prime energetiche e dei metalli preziosi, rafforzamento del dollaro sulle altre valute.
Fin qui la cronaca. Ma chiediamoci: ha senso la strategia del magnate degli alberghi di lusso rieletto alla Casa Bianca? Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro di qualche decennio. Fino a tutti gli anni Sessanta, sebbene di poco, la bilancia commerciale degli Stati Uniti è stata in attivo; poi, a partire dai Settanta, il trend si è invertito. E dagli anni Novanta in poi lo squilibrio col resto del mondo è diventato per così dire largo e strutturale. I numeri. Stando agli ultimi dati del US Census Bureau, gli Usa hanno un deficit con la Cina pari a 270 miliardi di dollari, di 213 miliardi con l’Unione europea, di 157 miliardi con il Messico e di 55 miliardi con il Canada. Non possiamo qui approfondire le cause di questo fenomeno (fine degli accordi di Bretton Woods, petrodollari ecc.), ma una cosa si può dire: negli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno svolto la funzione compratori di ultima istanza per le merci provenienti dall’Europa, dall’Asia e dai paesi vicini. Ma questo è stato possibile solo per la posizione del dollaro nelle transazioni internazionali. Non tutti i paesi potrebbero permetterselo. Merci comprate in dollari, i quali ritornano negli Stati Uniti sotto forma di investimenti negli asset venduti a Wall Street e di sottoscrizione di titoli del debito pubblico a stelle e strisce (in questo modo gli Stati Uniti spendono e consumano più di quanto producono). Ma non è finita qui. Una parte di queste risorse torna di nuovo all’estero, e in Europa in particolare, come partecipazione al capitale di imprese nel settore manifatturiero, energetico, militare, dei servizi (parliamo dello shopping di grandi fondi come Black Rock, Vanguard, State Street, molto presenti anche in Italia). Una divisione dei ruoli, grosso modo: le leve della finanza in mano a Washington, la produzione materiale di beni distribuita tra Cina, Europa, altri paesi asiatici.
Sul piano interno, tutto questo ha significato certamente un indebolimento della manifattura e un’esplosione delle disuguaglianze, perché di bolle finanziarie possono giovarsi solo circoli ristretti della popolazione. Ma anche la crescita di un diffuso risentimento delle classi popolari verso il vecchio establishment politico-economico-finanziario. Ciò che spiega il successo di Trump, che è stato capace di presentarsi come personalità estranea al sistema. Fuori dagli Usa, intanto, una serie di fattori hanno mandato in crisi il vecchio modello di globalizzazione. Nuovi attori economici sulla scena, inedite alleanze tra potenze emergenti e paesi del sud del mondo (Brics), minacce di de-dollarizzazione degli scambi a livello mondiale. Una situazione ancora in movimento, che ha fatto scattare l’allarme a Washington.
E siamo a Trump e ai suoi dazi. L’idea, un po’ semplicistica, è che bisogna porre un argine alle importazioni per riequilibrare i conti con l’estero. Quindi tariffe doganali sui beni provenienti dai paesi da cui gli Usa importano di più. Il guaio è che questi paesi hanno già annunciato che non staranno a guardare; sono pronti a loro vota a tassare le merci a stelle strisce. La Cina, invero, si è già portata avanti, con conto-dazi su carbone, gas ed altri prodotti made in Usa. Mentre l’Ue starebbe preparando un piano con tariffe su agroalimentare, alcolici, motociclette e Suv. D’altra parte il danno per l’Europa non sarebbe di poco conto. Le esportazioni europee verso gli Usa sono il 15% del totale, per un valore di circa 450 miliardi di dollari. Sono coinvolti principalmente i settori automobilistico, dei macchinari, farmaceutico. Solo le automobili valgono 60 miliardi, mentre i macchinari ne valgono 120 e i farmaci 80. Con dazi del 10%, si potrebbe avere un crollo dell’export nella misura del 20%, che in valore assoluto farebbe ben 90 miliardi all’anno.
Una spirale pericolosa. Che non porterà giovamento nemmeno all’economia americana. Le classi popolari subiranno un’erosione del loro potere d’acquisto a causa dell’aumento dei prezzi dei beni d’importazione, mentre l’export risentirà da un lato delle contromisure dei paesi finiti al centro della guerra commerciale, dall’altro del rafforzamento del dollaro (l’export americano in proporzione al pil vale più di quello dei principali paesi creditori verso gli Usa riferito al loro pil), che può servire solo a chi ha denaro da far girare e vive di plusvalenze. A meno che tutta questa manovra non abbia altre finalità. Come, ad esempio, scoraggiare l’abbandono del dollaro nel commercio internazionale. I dazi come arma di ricatto, insomma. In questo caso, meglio il ricatto commerciale che la guerra vera, si potrebbe dire, pensando alla sfida cinese soprattutto. Ma è presto per dirlo. Per adesso, si può solo dire che la transizione mondiale è entrata in una nuova fase. E non sarà una fase facile.
6 febbraio 2025Luigi Pandolfi - Volerelaluna, 6 febbraio 2025