La giostra degli affari
Il figliol “prodigo” e il giovane ricco sono ormai casi rari? Gente che si allontana dalla via dell’evangelo ce n'è sempre stata, ma noi abbiamo spesso pensato che questa sia la strada degli altri, di quelli che abbandonano la fede.
Non m'intendo di statistiche della fede. Forse non ne esistono; forse sono impossibili. Apprezzo, invece, quelle sulla religiosità.
Il giovane ricco e il figlio minore che si allontana dalla casa del padre lo fanno con gesto deciso: girano le spalle e se ne vanno per un'altra strada. La loro decisione è netta e chiara. Oggi invece si sgattaiola dal vangelo senza sbattere la porta.
Una parabola: tre letture
La ricordate la parabola del convito? Con tutta probabilità, nonostante le profonde differenze dei due testi, quella di Matteo 22, 1-14 e quella di Luca 14, 15-24 costituiscono diverse versioni di una stessa parabola originaria.
La prima lettura sembra evidente: “la parabola sulle labbra di Gesù voleva descrivere proprio questo fatto sorprendente, sottolineando la responsabilità dei primi (i giudei osservanti) che si autoescludevano dal regno della salvezza a differenza dei secondi (gli esclusi, gli scomunicati, le donne di strada, gli esattori delle imposte, il popolino disprezzato) che vi entravano per aver creduto” (G. Barbaglio). Sono i pagani a prendere il posto dei giudei, naturali “eredi” - diremmo oggi - del regno.
Matteo, polemico, mette i giudei sotto lo sferzante giudizio di Dio perché essi da primi destinatari diventano i primi avversari della buona novella. Leggendo in modo storico e non ideologico questa pagina di Matteo dobbiamo guardarci dal viziaccio cristiano di farne una lettura in chiave antiebraica.
Una seconda lettura
Guardiamo alla comunità di Matteo verso gli anni ottanta. La parabola non perde il suo riferimento al rifiuto di Israele, ma ne acquista un altro, diretto verso la comunità stessa. Si profilava, infatti, anzi già si respirava, un pericolosissimo lassismo morale. I fratelli e le sorelle della comunità si facevano troppe illusioni sul proprio conto e, facendo parte della comunità di Gesù, cominciavano a credersi i salvati, i garantiti, gente che ormai è sicura di essere sulla strada del regno. Basta far parte della chiesa e ricevere il battesimo e partecipare alla cena per essere “garantiti” di appartenere ai figli del regno? Matteo avvertiva la terribile pericolosità di una simile presunzione. Come intervenne? Con un espediente letterario e teologico singolarmente efficace.
Egli aggiunge alla parabola delle nozze un'altra parabola (vv. 13-15) assai nota, quella della veste da cerimonia. «Il nuovo vertice drammatico del racconto è l’ispezione del re che trova un commensale senza l’abito di nozze» (R. Fabris). La veste per noi, nella civiltà della immagine e della moda, ci riporta a qualcosa di esteriore. Nella tradizione biblica la veste, metaforicamente, indica una qualità ed una disposizione profonda del cuore. Rivestirsi di Gesù Cristo (Romani 13, 14) significa appunto vivere uniti a Gesù, secondo il suo progetto e il suo orizzonte. Indossare la veste nuziale significa, qui nella parabola, deporre il vecchio modo di vivere e assumerne uno nuovo, cioè convertirsi.
Ecco dunque la seconda lettura della parabola, fatta per la comunità del tempo di Matteo: per appartenere alla comunità di Gesù non basta aver creduto un giorno e aver ricevuto il battesimo. Occorre una fedeltà attiva, quotidiana, una esistenza continuamente attraversata dalla disponibilità a convertirsi ogni giorno. Così il discorso allegorico e polemico si trasforma in un serio ammonimento per quei cristiani che si cullano nella falsa sicurezza data loro dall’appartenenza formale alla chiesa.
Franco Barbero