Riflessioni d’una scrittrice
Gli ebrei
Natalia Ginzburg
(articolo pubblicato su “La Stampa” del 14 settembre 1972)
II giorno
successivo ai fatti di Monaco (ndr: il massacro alle Olimpiadi del 5-6 settembre
1972),
l’Associazione della stampa cattolica mi ha telefonato dicendo che faceva
un’inchiesta a proposito della strage e mi chiedeva di esprimere un’opinione.
Ho rifiutato di rispondere. Ho detto che non rispondo mai alle inchieste.
Pronunciare al telefono quattro frasi mi sembrava stupido e inutile. Ma in
seguito, mi è venuto il desiderio di rispondere ai giornalisti cattolici a
lungo e per disteso. Non avevo una sola opinione da esprimere, ne avevo molte,
e soprattutto volevo radunare alcuni pensieri che trovavo dentro di me
sparpagliati. Rispondo qui. Quando avviene una disgrazia nel mondo, ci accade
di pensare, come avremmo agito noi stessi se ne fossimo stati i protagonisti o
se avessimo avuto il potere di agire. Essendo il potere lontanissimo dalle
nostre mani, questi pensieri sono solo vacue fantasie. Però anche se si tratta
di vacue fantasie, dirò lo stesso come avrei agito nei fatti di Monaco se
avessi avuto il potere di agire.
Se fossi stata
Golda Meir, avrei liberato i duecento prigionieri, come i guerriglieri
chiedevano. Dicono che non si deve mai sottostare ai ricatti. A me sembra che
anche i ricatti si devono accettare, nel caso di una grande disgrazia comune.
Dicono che i duecento prigionieri, una volta liberi, avrebbero ancora catturato
innocenti e disseminato stragi. Ma il mondo oggi è costruito in una forma così
disastrosa che è necessario decidere di minuto in minuto come difendersi e chi
difendere. Penso che quei nove ostaggi andavano salvati e ogni altra
considerazione lasciata in disparte. Penso che se Golda Meir avesse liberato i
duecento prigionieri, avrebbe dato al mondo una lezione, non di debolezza, ma
di forza. O almeno dell’unica forza in cui è legittimo credere, la forza che se
ne infischia di vincere ed è pronta a perdere, la forza che non risiede nelle
armi, nel petrolio o nell’orgoglio ma nello spirito.
Se fossi stata il
capo della polizia tedesca, avrei lasciato che i guerriglieri andassero via
illesi e portassero i nove ostaggi dove essi credevano. Se esisteva anche solo
un atomo di possibilità che uno fra i nove ostaggi riuscisse a salvarsi, questo
atomo doveva da tutti essere contemplato come essenziale.
Se fossi stata il
capo delle Olimpiadi, avrei sospeso le Olimpiadi perché evidentemente dopo non
avevano più nessun senso.
Se infine fossi un
capo di Stato, chiederei all’America di ritirare le truppe dal Vietnam.
Naturalmente glielo avrei già chiesto, ma glielo chiederei ancora di più in
questo momento. Non credo che i bambini vietnamiti siano diversi dai nove
ostaggi israeliani. L’unica differenza è questa, che tutti ci siamo assuefatti
a sapere che i bambini vietnamiti muoiono, e ci siamo assuefatti perfino a
guardare come muoiono, avendoli osservati senza battere ciglio al cinema e alla
televisione. Si tratta però di una orribile assuefazione. Il fatto che nel
Vietnam ci sia la guerra e invece lo stadio olimpico volesse essere una
cosiddetta isola di pace, non mi sembra una differenza determinante. Falso è
credere che possano ancora esistere isole di pace in un mondo quale è il
nostro. E i destini degli uomini sono oggi così avviluppati e aggrovigliati
insieme, che una guerra in un punto del mondo propaga quotidianamente
indifferenza, assuefazione e familiarità alle stragi. Se l’America ora a un
tratto portasse via le truppe dal Vietnam i nove ostaggi israeliani non
sarebbero morti inutilmente.
Nel pensare ai
guerriglieri, ho la sensazione di provare per loro una sorta di orrore
disumano. Un simile orrore disumano, può ispirarlo soltanto la presenza di una
disumana disperazione. Quando riconosciamo i natii della disumana disperazione,
sentiamo scomparire dal nostro spirito i nostri sentimenti consueti, non
sentiamo più odio, né sdegno, né pietà. Il nostro spirito diventa di pietra. Ci
sembra di avere incontrato sui nostri passi un deserto di pietra, dove non
cresce odio né sdegno né pietà come non crescono alberi. Nel pensare ai
guerriglieri con un simile orrore disumano, noi diventiamo per qualche attimo
simili a loro o all’idea che ci siamo fatti di loro, diventiamo di pietra e
perdiamo il respiro dello spirito. Da un simile orrore disumano, noi dovremmo
difenderci perché esso è un’aberrazione. I guerriglieri sono forse il limite
estremo della nostra stessa disperazione, non ancora disumana e stillante di
pietà e di sdegno, non ancora disumana e con la quale da tempo ci siamo
abituali a convivere. Le chiavi per capire i guerriglieri forse risiedono nella
nostra stessa disperazione. Essi ti sembrano venuti da un mondo che non è il
nostro. Ma le strade che hanno seguito per arrivare, a una simile, disumana
disperazione, a noi sembrano indecifrabili e disumane forse soltanto perché non
ci è mai accaduto né di conoscerle, né di chiederci quanto fossero diverse e
remote o quanto fossero vicine e simili alle strade che noi medesimi abbiamo
percorso. Dei guerriglieri, sappiamo pochissime cose, ma sappiamo che sono
disposti a buttare via la loro vita in ogni istante così come quella degli
altri. Quando buttano via la loro vita, non si pensa al coraggio, e quando
buttano via la vita degli altri, non si pensa alla crudeltà. Per questo, essi
ci sembrano dotati di una forza che ci è impossibile raggiungere con la voce.
Impossibile chiedergli che risparmino degli innocenti. Ci sembra che nei luoghi
disumani e disperati in cui essi abitano, i colpevoli e gli innocenti non
esistano più, perché il mondo non ha più i colori della colpa e dell’innocenza,
il mondo è inanimato e disabitato e di un solo colore. Entro di esso esiste
solo la morte, e una vita ridotta a un cencio che si butta via con un rapido
gesto trovandola non migliore della morte e comunque dello stesso colore.
Io sono ebrea.
Tutto quello che riguarda gli ebrei, mi sembra sempre che mi coinvolga
direttamente. Sono ebrea solo per parte di padre, ma ho pensato sempre che la
mia parte ebraica doveva essere in me più pesante e ingombrante dell’altra
parte. Se mi succede di incontrare in qualche luogo una persona che scopro
essere ebrea, istintivamente ho la sensazione di avere con essa qualche
affinità. Dopo un minuto magari la trovo odiosa, ma permane in me un senso di
segreta complicità. Questo è un aspetto della mia natura che trovo strano e che
non mi piace affatto, perché è in aperto contrasto con tutto quello che ho
sempre pensato nel corso della mia vita, perché ritengo che non esistano fra
gli ebrei delle affinità se non estremamente superficiali, perché penso che gli
uomini debbano oltrepassare i confini delle loro origini. Questo è ciò che
penso, ma quando incontro un ebreo non riesco a reprimere una strana e buia
sensazione di connivenza. Quando ho saputo della strage di Monaco, ho pensato
che avevano ammazzato ancora una volta quelli del mio sangue. L’ho pensato in
mezzo a un mare di altri pensieri, ma l’ho pensato. Nel pensarlo, ho provato
disprezzo per me stessa perché era un pensiero da disprezzare. Non credo
affatto che gli ebrei abbiano un sangue diverso da quello degli altri. Non
credo che esistano divisioni di sangue. Sono ebrea e ho avuto una educazione
borghese. Questa educazione borghese mi ha istillato alcune idee false. Devo
avere in qualche modo respirato, nell’infanzia, l’idea che gli ebrei e i borghesi
avevano diritti e superiorità sugli altri. Non mi è stato detto certo mai nulla
di simile, in casa mia, e anzi mi è stata insegnala la parità di diritti fra
gli uomini. Ma nelle strutture della mia educazione doveva essere presente
un’idea di superiorità. Noi lottiamo tutta la vita per liberarci dei vizi della
nostra educazione, ma i vizi dell’educazione ci restano stampati sullo spirito
come dei tatuaggi. Nella nostra vita adulta, si passa il tempo a lavare questi
tatuaggi dal nostro spirito. Nei confronti degli ebrei di Israele, credo di
aver pensato che essi avevano diritti e superiorità sugli arabi. A un certo
momento questa mi è sembrata un’idea mostruosa. L’ho strappata e calpestata con
furia. Però mi sono accorta che una simile idea mostruosa l’avevo coltivata in
me per molti anni come una pianta sul davanzale. Pur avendola strappata e
calpestata, non sono perfettamente sicura che non ne restino in me dei
brandelli sparsi. Le nostre idee mostruose hanno la virtù di farci capire come
è fatto il nostro paesaggio interiore. Una idea mostruosa vi cresce e prolifera
quietamente senza far sparire nulla intorno a sé. Cresce e prolifera accanto ai
nostri impulsi migliori e alla nostra sete di giustizia e di uguaglianza, senza
farli sparire ma trasformandoli a poco a poco in un mucchio di paglia fradicia.
Le nostre idee
mostruose dovrebbero anche avere la virtù di farci capire come sono fatti i
nostri nemici, o quelli che usiamo chiamare i nostri nemici. Esse dovrebbero
insegnarci a posare gli occhi sugli altri con tolleranza e con estrema
attenzione. Dopo che le abbiamo strappate e calpestate, noi dovremmo serbarne
memoria e smetterla di pensare a noi stessi come ai figli del bene universale.
A volte ho pensato che gli ebrei di Israele avevano diritti e superiorità sugli
altri essendo sopravvissuti a uno sterminio. Questa non era un’idea mostruosa,
ma era un errore.
Il dolore e le stragi di innocenti che abbiamo contemplato e patito nella nostra vita, non ci danno nessun diritto sugli altri e nessuna specie di superiorità. Coloro che hanno conosciuto sulle proprie spalle il peso degli spaventi, non hanno il diritto di opprimere i propri simili con denaro o armi, semplicemente perché questo diritto non lo ha al mondo anima vivente. Riguardo agli ebrei di Israele, mi succede questo. Se qualcuno parla contro di loro provo un senso di rivolta e di oscura offesa. Mi sembra che venga offesa la mia stessa famiglia. Se però qualcuno ne parla con ammirazione e devozione, ho la sensazione subitanea di non condividere questi sentimenti e di trovarmi sull’altra sponda. Dopo la guerra, abbiamo amato e commiserato gli ebrei che andavano a Israele pensando che erano sopravvissuti a uno sterminio, che erano senza casa e non sapevano dove andare. Abbiamo amato in loro le memorie del dolore, la fragilità, il passo randagio e le spalle oppresse dagli spaventi. Questi sono i tratti che noi amiamo oggi nell’uomo. Non eravamo affatto preparati a vederli diventare una nazione potente, aggressiva e vendicativa. Speravamo che sarebbero stati un piccolo paese inerme, raccolto, che ciascuno di loro conservasse la propria fisionomia gracile, amara, riflessiva e solitaria, forse non era possibile. Ma questa trasformazione è stata una delle cose orribili che sono accadute. Quando qualcuno parla di Israele con ammirazione, io sento che sto dall’altra parte. Ho capito a un certo punto, forse tardi, che gli arabi erano poveri contadini e pastori. So pochissime cose di me stessa, ma so con assoluta certezza che non voglio stare dalla parte di quelli che usano armi, denaro e cultura per opprimere dei contadini e dei pastori. Il nostro istinto ci spinge a stare da una parte o dall’altra. Ma in verità è forse impossibile oggi stare da una parte o dall’altra. Gli uomini e i popoli subiscono trasformazioni strane, rapidissime e orribili. La sola scelta che a noi è possibile è di essere dalla parte di quelli che muoiono o patiscono ingiustamente. Si dirà che è una scelta facile, ma forse è l’unica scelta che oggi ci sia offerta.