martedì 9 settembre 2025

 C o m u n i t à   c r i s t i a n a   d i   b a s e   d i   v i a   C i t t à   d i   G a p,  P i n e r o l o

NOTIZIARIO DELLA CASA DELL’ASCOLTO E DELLA PREGHIERA

 N° 126 settembre ‘25

 

In evidenza:

    INCONTRI COMUNITA’ IN SEDE E SU MEET

- 2, 9, 16, 23 e 30/9 h18: gr. biblici on line pag1

- 5, 12, 19, 26/9 + 3/10 h17: gr. bib in pres pag1

- 7 e 21/9 h10: eucarestie on line pag1

- 21/9 h10:45: assemblea di comunità pag1

    NOTIZIE DA GRUPPI E COLLEGAMENTI

-   27/9 ore 16:30: confronto tra cdb su fine vita pag2

-   18-19/10: colleg. nazionale CdB a Rimini pag2  

       SPUNTI PER MEDITARE E RIFLETTERE

-   O Dio, aiutaci nella normalità pag2

-   Gaza. Che fare? Moltiplicare le iniziative… pag2

-   L’amore del Signore pag5

-   Due potenti e un genocidio pag5


 APPUNTAMENTI DI COMUNITA’ IN PRESENZA E SU MEET

NB: invitiamo tutte/i a partecipare agli incontri comunitari:

- Gruppi biblici: i martedì dalle h18 solo on line (ci si può collegare dalle h17:45 usando il link https://meet.google.com/ehv-oyaj-iue) e i venerdì dalle h17 solo in presenza.

- Eucarestie: anche questo mese ci vedremo la seconda e la quarta domenica alle ore 10 (collegamento dalle ore 9:45 con il solito link del gr. bibl.: https://meet.google.com/ehv-oyaj-iue)

     MARTEDI’ 2 SETTEMBRE h18 – Gr. biblico on line: introduzione all’Esodo.

     VENERDI’ 5 SETTEMBRE h17 – Gr. biblico in presenza: introduzione all’Esodo.

     DOMENICA 7 SETTEMBRE h 10 – Eucarestia on line (prepara Francesco Giusti)

     MARTEDI’ 9 SETTEMBRE h18 – Gr. biblico on line: commentiamo Esodo, 1,1 – 2,22.

     VENERDI’ 12 SETTEMBRE h17 – Gr. biblico in presenza: su Esodo, 1,1 – 2,22.

     MARTEDI’ 16 SETTEMBRE h18 – Gr. biblico on line: commentiamo Esodo, 2,23 – 4,9.

     VENERDI’ 19 SETTEMBRE h17 – Gr. biblico in presenza: su Esodo, 2,23 – 4,9.

     DOMENICA 21 SETTEMBRE h 10 – Eucarestia on line (prepara Maria Grazia Bondesan)

     DOMENICA 21 SETTEMBRE h 10:45 – assemblea di comunità

     MARTEDI’ 23 SETTEMBRE h18 – Gr. biblico on line: commentiamo Esodo, 4,10 – 7,7.

     VENERDI’ 26 SETTEMBRE h17 – Gr. biblico in presenza: su Esodo, 4,10 – 7,7.

     MARTEDI’ 30 SETTEMBRE h18 – Gr. biblico on line: commentiamo Esodo, 7,8 – 11,10.

     VENERDI’ 3 OTTOBRE h17 – Gr. biblico in presenza: su Esodo, 7,8 – 11,10.

NOTIZIE DA GRUPPI E COLLEGAMENTI

  Confronto intercomunitario sul fine vita: 

  27 settembre ‘25

Nell’incontro di giugno (vedi report sul notiziario) abbiamo dialogato sul nostro fine vita con la cdb di Pinerolo – “Viottoli” e la cdb di Piossasco. Abbiamo deciso di riparlarne e, nel frattempo, cercare di raccogliere tutti i materiali prodotti su questi temi dalle nostre comunità. Per continuare a riflettere su questo tema ci incontreremo sabato 27 settembre ore 16,30 presso la sede di vicolo carceri, 1 a Pinerolo.

   Collegamento nazionale cdb: 18 e 19 ottobre '25 Rimini

Come deciso nel collegamento di luglio, il nostro prossimo incontro si terrà in presenza da sabato 18 pomeriggio a domenica 19 ottobre (mattina e pranzo) presso l’“Aqua” Hotel di Rimini.

Due i punti all’ordine del giorno:

1)   il sabato pomeriggio discuteremo sul prossimo incontro nazionale sul tema “Cos’è per noi essere Chiesa altra?”. Alcune cdb ne hanno parlato al loro interno, altre non ancora; ma l’interesse per l’argomento è comune. Le cdb sono nate come “Chiesa altra” e sarà importante riflettere insieme sugli sviluppi nel tempo e su cosa siamo oggi: è il percorso di ogni cdb alla ricerca di una spiritualità umana e laica, che intendiamo come impegno sociale per cooperare alla liberazione degli “ultimi” da ogni condizionamento, per la pace e la nonviolenza, insieme ad altre realtà e gruppi, anche interni alla chiesa cattolica, che ci sono “collaterali”. È condivisa anche la proposta di non cercare esperti/e esterni/e, ma di lavorare tra di noi in gruppi, “anche se potrebbe essere interessante sentire qualcuno che riflette da fuori”, cosa che potrebbero fare persone della Rete Sinodale se accettassero l’invito a partecipare.

2)   la domenica mattina ci concentreremo su argomenti più operativi

 

SPUNTI PER MEDITARE E RIFLETTERE

O Dio, aiutaci nella normalità

 

Voglio ringraziarti della gioia che ho provato nel vedere in questi ultimi giorni, i cittadini/e quasi tutti rientrati alla vita, al lavoro, alla scuola, al saluto per strada, al mercato al quale ora vado anch'io.

La bellezza e la fecondità della vita tra casa, relazioni, gruppi comunitari sono realtà.

Via porro 16 a Pinerolo è ricca oltre misura di visite, passaggi, posta, problemi.

Grazie ancora o Dio di questi ultimi giorni che mi regali per incontrare persone che ti cercano.

Vivere è cercare te per compiere la tua volontà. 

 

Franco Barbero, agosto 2025

 

Gaza. Che fare? Moltiplicare le iniziative non violente

Gaza: che fare? Il tempo della denuncia è finito. L’enormità dei crimini commessi dal governo israeliano, e di quelli impudentemente annunciati, è sotto gli occhi di tutti. Perfino la parola “genocidio” è stata sdoganata presso i media mainstream, con colpevole ritardo rispetto al gennaio 2024, quando la Corte Internazionale di Giustizia dichiarò “plausibili” le accuse mosse a Israele dal Sud Africa di violare la Convenzione del ’48. Resta, drammatica, inevasa, la vera questione: “che fare?”. Nel moltiplicarsi, e accavallarsi, di iniziative simboliche – esposizione di lenzuoli e bandiere, digiuni, inviti al raccoglimento o a “rompere il muro del silenzio”, luci accese e cellulari spenti – diffusa è l’esigenza di azioni concrete e mirate.

Secondo Angelo d’Orsi sarebbe ora di passare, marxianamente, “dalle armi della critica alla critica delle armi”, inviando un contingente militare, sotto l’egida dell’ONU, a fermare il genocidio (ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2025/08/23/mandare-a-gaza-i-caschi-blu-per-proteggere-i-palestinesi/8102152/). Anche Giangiacomo Migone, sul Fatto quotidiano e poi su questo sito (volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/09/01/caschi-blu-a-gaza-lonu-puo-aggirare-il-veto-degli-stati-uniti/), ha sostenuto, testualmente, che «Per fermare Netanyahu a Gaza occorre l’intervento militare dell’ONU. Altrimenti sono chiacchiere, più o meno strumentali, anche dotte, ma chiacchiere». Tanto D’Orsi quanto Migone riprendono la proposta avanzata il 18 agosto a Istanbul dall’ex relatore speciale dell’ONU per i Territori occupati, Richard Falk, che invita i governi ad aggirare l’immancabile veto americano al Consiglio di sicurezza su ogni risoluzione sgradita a Israele e ad appellarsi direttamente all’Assemblea generale, perché disponga l’invio dei caschi blu a Gaza in applicazione dell’articolo 7 della Carta dell’ONU, attraverso una procedura eccezionale attivata ai tempi della guerra di Corea (contropiano.org/news/internazionale-news/2025/08/21/giuristi-chiedono-un-intervento-militare-a-gaza-per-fermare-israele-0185828).

Due sono gli elementi qualificanti di simili proposte. Il primo attiene alla strategia da adottare per restituire all’ONU il ruolo che le spetterebbe a garanzia della pace e del diritto internazionale. I bombardamenti indiscriminati a Gaza, le violenze squadriste in Cisgiordania, le guerre “di difesa” impunemente intraprese da Israele contro l’Iran e altri Stati sovrani, stanno uccidendo anche il diritto internazionale, basato sul principio dell’eguaglianza tra i popoli e sulla rinuncia alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. La strategia suggerita da Richard Falk consentirebbe di spostare il centro di gravità dell’ONU dal Consiglio di sicurezza, paralizzato dal veto incrociato di Stati Uniti e Russia, all’unico organo davvero rappresentativo di tutti gli Stati del mondo, l’Assemblea generale, in cui i popoli del Sud globale, tuttora oggetto di politiche imperialiste e neo-coloniali, hanno la stessa dignità e lo stesso peso decisionale delle grandi potenze. Un simile spostamento potrebbe rappresentare un primo, significativo, passo verso quella riforma in senso democratico dell’ONU di cui da anni si discute, senza nulla concludere. Una riforma che potrebbe realizzarsi “di fatto”, e consolidarsi per via consuetudinaria, anziché attraverso un processo formale di revisione della Carta del ‘48, come non raramente accade nell’ambito del diritto internazionale. Ben venga, dunque, una simile proposta, in sintonia con quanto da mesi predica, inascoltato, un altro grande giurista, Luigi Ferrajoli, anche in relazione al conflitto russo-ucraino (ilmanifesto.it/per-la-pace-le-nazioni-unite-in-seduta-pubblica-e-permanente-sullucraina).

Ciò che solleva perplessità è, tuttavia, la seconda parte della propostaAggirare il veto degli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza, per fare che cosa? Perché il ritrovato, e auspicabile, protagonismo dell’Assemblea generale dovrebbe tradursi in una chiamata alla guerra? Altro non sarebbe, infatti, l’invio dei caschi blu per fermare il genocidio, senza il consenso di Israele. Se si aggiunge che Israele e Stati Uniti sono potenze atomiche, guidate da leader che hanno dimostrato finora un grado di fanatismo e di disprezzo per la vita umana senza pari, ci sarebbe davvero da temere il peggio… Oltre a essere fantascientifica, l’ipotesi dei caschi blu che fermano Netanyahu (e Trump), spalleggiati dagli eserciti dei paesi che hanno votato a favore della spedizione militare, «tutti potenzialmente pronti a intervenire a fianco dei Caschi blu ove questi fossero attaccati dalle forze armate israeliane» (d’Orsi), non tiene conto degli effetti perversi di questo genere di interventismo. Non abbiamo imparato proprio nulla dalla tragica, e fallimentare, stagione delle guerre “dell’ONU”, o “in nome dell’ONU”, giustificate immancabilmente in chiave umanitaria, come strumenti per ristabilire il diritto violato, esportare la democrazia, proteggere le donne, fermare la pulizia etnica? Le disastrose conseguenze di simili imprese, in termini di perdite di vite umane e di accensione di nuovi focolai di conflitto, non dovrebbero averci insegnato che la democrazia e i diritti non si esportano, e la pace non si impone, attraverso la guerra?

Che fare, dunque? La Carta dell’ONU, troppo spesso invocata per giustificare interventi militari, prevede all’art. 41 anche altre misure, che nel caso di Israele non sono state neanche in minima parte attuate, come l’interruzione delle relazioni diplomatiche ed economiche con i paesi che si macchiano di gravi crimini internazionali. Per questo genere di misure – a partire dall’embargo totale su armi e tecnologia dual use – dovrebbe spendere la propria autorevolezza una resuscitata Assemblea generale, che trovi il coraggio di emanciparsi dai ricatti israeliani e americani. Nel frattempo, un contributo determinante a riaffermare i principi della legalità internazionale lo stanno dando le decine di barchette colorate – e rigorosamente disarmate – che formano la Global Sumud Flottilla in navigazione verso Gaza: più temibili, per il governo Netanyahu, di ipotetiche flotte corazzate e armate di tutto punto. E un contributo lo offrono anche le persone, sempre più numerose, che stanno modificando le proprie abitudini di consumo per aderire al boicottaggio dei prodotti israeliani promosso dalla dirigenza palestinese del BDS, che invita anche a esercitare pressioni sui governi perché decidano sanzioni, replicando quanto avvenne con il Sud Africa dell’apartheid.

In una lunga intervista di qualche mese fa, Ilan Pappé, lo storico israeliano che più di ogni altro ha contribuito a far conoscere l’“altra storia” del conflitto israelo-palestinese, con scritti fondamentali come La pulizia etnica della Palestina, Dieci miti su Israele e, da ultimo, Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina, alla fatidica domanda sul “che fare” ha risposto che l’unica cosa che davvero spaventerebbe molti israeliani che sostengono Netanyahu sarebbe l’espulsione del loro paese dalla UEFA (www.youtube.com/watch?v=58yeMWmiXwominuto 59.50). Di fronte alla risata incredula degli astanti, Pappè ha ribadito: «Parlo sul serio». Il calcio, e lo sport in generale, contano. Contribuiscono alla reputazione di un paese, al modo in cui viene percepito a livello internazionale. Al modo in cui si auto-percepisce. Lo dimostrano gli sforzi da sempre profusi dai governi israeliani per promuovere la propria immagine (di “unica democrazia del Medio Oriente”), anche mandando a gareggiare in giro per il mondo la propria squadra di ciclismo, in una consapevole operazione di sport-washing.

Se questo è vero, la coraggiosa presa di posizione dell’Associazione italiana allenatori di calcio, guidata da Renzo Ulivieri, che chiede l’esclusione temporanea delle squadre israeliane dalle competizioni sportive (già prevista nel caso della Russia), andrebbe valorizzata e sostenuta. «Una partita di calcio, preceduta dagli inni nazionali, può essere considerata solo una partita di calcio?» – si chiedono i firmatari del documento, indirizzato ai vertici del calcio italiano. La loro risposta è negativa: no, lo sport non può rimanere a guardare di fronte alle stragi quotidiane «che hanno riguardato anche centinaia di morti tra dirigenti, tecnici e atleti, compreso la stella del calcio palestinese Suleiman al-Obeid» (www.assoallenatori.it/news/2489.html). Nello stessa direzione va l’appello alla mobilitazione contro lo svolgimento della partita Italia-Israele a Udine del prossimo 14 ottobre, promosso da Comitato per la Palestina Udine e da molte altre sigle (www.centrobalducci.org/eventi-e-news/udine-e-con-la-palestina-fuori-israele-dalla-fifa/).

Dalle armi della critica alla critica delle armi? Sì, a patto che ci si si intenda sul tipo di “armi” che è opportuno usare. E si rifletta sulle potenzialità delle tecniche di lotta nonviolenta che, da Gandhi a oggi, hanno spesso mostrato la loro superiorità rispetto a quelle apparentemente più radicali. Sul piano dell’efficacia, oltre che su quello etico.

 Valentina Pazé (da www.volerelaluna.it del 5/9/2025) 

L’amore del Signore

Che il vento, soffiando nei vostri capelli, vi porti il palpitare della vita.
Che i vostri piedi lascino nella polvere orme di speranza.
Che nell'oscurità voi udiate battere il cuore del prossimo.
Che le vostre mani si protendano come porte che si aprono.
Che le vostre bocche trasmettano quanto vi è stato dato di ricevere.
Che le vostre orecchie colgano quello che le parole dicono solo a metà.
E che l'amore del Signore vi accompagni anche là dove non vorreste andare.

 

Cristian Kempf

Due potenti e un genocidio 

«Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario». L’articolo 1 della Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano esprime in forma ufficiale ciò che resta del potere temporale dei papi. È l’ultima traccia di quella doppia natura del papato, autorità religiosa e morale da una parte, signoria mondana dall’altra. Questa doppia natura, ci si è sempre chiesti, è coerente col comandamento del Signore circa l’essere “nel mondo, ma non del mondo”, o invece non lega i successori di Pietro alla logica dei principati e dei regni, quelli che il diavolo promette a Gesù nelle tentazioni, ritenendoli suoi? In altre parole, il papa-sovrano che accetta la logica del potere mondano è il san Pietro che ama il Signore, o quello che lo tradisce?

A questa discussione secolare, papa Francesco aveva dato una risposta scardinante: quella della profezia. Un papa non secondo il mondo, ma secondo il Vangelo: capace di spiazzare ogni suo interlocutore perché la profezia e la potestà papale non avevano forse mai coinciso, nella storia bimillenaria della Chiesa. Il suo parlare era “sì, sì, no, no”: così contravvenendo alla prima regola del potere terreno, quella di una sistematica menzogna. Leone XIV non è, con ogni evidenza, un profeta: con lui il papato torna nell’alveo ordinario dell’esercizio del potere. Fin qui, purtroppo, nulla di strano: ‘strano’ era Francesco.

Ma l’udienza concessa al capo dello Stato di Israele, Isaac Herzog, non è ordinaria nemmeno per la tradizione spregiudicata del potere papale: non ne ha la prudenza né la saggezza. La bandiera israeliana nel cortile di San Damaso, gli onori militari resi dalla Guardia svizzera, la stretta di mano davanti ai fotografi, lo scambio dei doni, il tenore comunicato stampa: ognuna di queste cose è uno scandalo (cioè, letteralmente, una pietra d’inciampo: specie per i cristiani). Perché Herzog rappresenta uno Stato genocida: e papa Francesco – in sintonia con la scienza giuridica e la coscienza del mondo – chiamava ‘genocidio’ quello in corso a Gaza. E le sue parole e le sue azioni personali sono tra le prove del genocidio. Fu Herzog, tra l’altro, a dire: «è un’intera nazione là fuori che è responsabile. Questa retorica sui civili non consapevoli, non coinvolti, non è assolutamente vera». È a questo che papa Leone ha dato legittimità morale: quella stretta di mano è una assoluzione in mondovisione.

Nella ‘giornata particolare’ in cui Hitler venne a Roma, nel 1938, Pio XI fece sbarrare financo i Musei Vaticani, e si ritirò a Castel Gandolfo. Il sovrano pontefice rendeva evidente il suo sdegno nei confronti di chi si apprestava a compiere il genocidio della Shoah. La scala era tale, che non si poteva tacere: il Vangelo prendeva il sopravvento sulla ragion di Stato, in una scheggia di profezia. E ora?

Alla fine dell’incontro, Herzog ha tra l’altro detto: «L’ispirazione e la leadership del Papa nella lotta contro l’odio e la violenza e nella promozione della pace in tutto il mondo sono apprezzate e fondamentali. Attendo con interesse di approfondire la nostra cooperazione per un futuro migliore all’insegna della giustizia e della compassione». Un abbraccio mortale, sul piano morale. Aver permesso al capo dello Stato genocida di Israele di mentire così efferatamente, e di farlo sulla tomba di san Pietro, è una macchia, grave, che rimarrà sulla storia della Chiesa.

E il punto di vista del papa, affidato a un comunicato ufficiale della Sala stampa della Santa Sede, lascia interdetti: «Nel corso dei cordiali colloqui con il Santo Padre e in Segreteria di Stato, è stata affrontata la situazione politica e sociale del Medio Oriente, dove persistono numerosi conflitti, con particolare attenzione alla tragica situazione a Gaza. Si è auspicata una pronta ripresa dei negoziati affinché, con disponibilità e decisioni coraggiose, nonché con il sostegno della comunità internazionale, si possa ottenere la liberazione di tutti gli ostaggi, raggiungere con urgenza un cessate-il-fuoco permanente, facilitare l’ingresso sicuro degli aiuti umanitari nelle zone più colpite e garantire il pieno rispetto del diritto umanitario, come pure le legittime aspirazioni dei due popoli. Si è parlato di come garantire un futuro al popolo palestinese e della pace e stabilità della Regione, ribadendo da parte della Santa Sede la soluzione dei due Stati, come unica via d’uscita dalla guerra in corso. Non è mancato un riferimento a quanto accade in Cisgiordania e all’importante questione della Città di Gerusalemme. Nel prosieguo dei colloqui, si è convenuto sul valore storico dei rapporti tra la Santa Sede e Israele e sono state affrontate anche alcune questioni riguardanti i rapporti tra le Autorità statali e la Chiesa locale, con particolare attenzione all’importanza delle comunità cristiane e al loro impegno in loco e in tutto il Medio Oriente, a favore dello sviluppo umano e sociale, specialmente nei settori dell’istruzione, della promozione della coesione sociale e della stabilità della regione». Cordiali colloqui con il garante di un genocidio in corso? Rispetto del diritto umanitario, e non del diritto internazionale? Aiuti solo nelle zone “più colpite”? Israele che garantisce un futuro al popolo che sta massacrando, nel più terribile colonialismo, e in spregio alle sanzioni dell’Onu? Nessuna presa d’atto che i ‘due stati’ sono ormai impossibili per il furto di territori perpetrato dai coloni israeliani? E, soprattutto, come è possibile chiamare ‘guerra’ un genocidio? Questa non è diplomazia, questo è un tradimento morale di proporzioni enormi.

Gaza è più sola, la Santa Sede più debole e meno credibile. Solo Israele trae vantaggio da questa visita, che rimarrà come una pagina nera: come il Giovanni Paolo II ospite di Pinochet. E anche peggio, perché il genocidio di Gaza è un evento spartiacque nella storia umana, come si vedrà presto. È mancata la prudenza, è mancata la semplicità («siate prudenti come serpenti, semplici come colombe», comanda il Signore ai suoi). È mancata la parresia ed è mancata la carità. Pochi giorni fa, suor Giovanna della Piccola Famiglia dell’Annunziata, fondata da Giuseppe Dossetti, si era detta profondamente addolorata nel «vedere una Chiesa quasi silente» su Gaza, e aveva chiesto ai religiosi e alle religiose di andare «in piazza San Pietro, con cartelli semplici, diretti, che chiedano al Papa di muoversi: di andare a Gaza; di condannare pubblicamente Israele; di lanciare appelli incessanti perché i Paesi occidentali si mobilitino per fermare il genocidio». Domandiamoci ancora: il papa-sovrano che accetta la logica del potere mondano è il san Pietro che ama il Signore, o quello che lo tradisce? La risposta è arrivata: con papa Leone XIV, la Chiesa del potere torna ad essere “del mondo”. Ed è nella Chiesa di suor Giovanna, la Chiesa dei senza potere, che, «nel mondo», rimane accesa la fiammella del Vangelo.

Singolare, peraltro, la parabola del presidente israeliano. «Il percorso che lo ha portato dall’essere un pilastro del partito laburista centrista israeliano sino a diventare un apologeta di una guerra brutale che ha ucciso oltre 65.000 palestinesi e ha portato la Striscia a condizioni di fame sempre più gravi, è davvero sorprendente», dice ad esempio con estrema durezza uno dei giornalisti che meglio conosce la regione, Peter Beaumont, forte di un’esperienza di decenni. La durezza di Beaumont su Isaac Herzog è amplificata anche dal fatto che il presidente israeliano ha in programma di visitare il Regno Unito. Un’altra tappa – oltre quella in Vaticano – inserita in una offensiva diplomatica che a qualcosa, per Tel Aviv, deve pur servire. Un’offensiva inusitata, in pieno genocidio.

A cosa serve il periplo occidentale di Herzog? A far probabilmente masticare e digerire, ai governanti occidentali che non hanno l’abilità politica di fermare Israele, l’ipotesi dell’espulsione dei palestinesi da Gaza. E nel caso vaticano, a far digerire l’espulsione della comunità cristiana da Gaza, nonostante la presa di posizione comune – e contraria formalmente all’espulsione – del patriarca latino Pierluigi Pizzaballa e del patriarca greco-ortodosso Teofilos. I rapporti tra Vaticano e Israele non mai stati semplici, da sempre, ma ora c’è un genocidio. E la Santa Sede non può continuare ad agire come prima, quando le frizioni e le pressioni avevano come campo d’azione le questioni fiscali e dell’educazione. Ora c’è un genocidio e il tentativo di portare a compimento la Grande Israele. C’è la piccola comunità palestinese di fede cristiana che non vuole andarsene dalla parrocchia di Gaza, e c’è la Collina del Papa. La Collina del Papa, di cui nessuno parla, e che è invece l’ultimo ostacolo al compimento del distacco forzato di Gerusalemme dalla Cisgiordania, dopo l’ultima ruberia: quella attuata dal ministro Bezalel Smotrich con la colonia da costruire in zona E1, staccando cioè Ramallah da Betlemme. La Collina del Papa, donata da re Hussein di Giordania a papa Paolo VI, è l’ultimo lembo rimasto a impedire la conquista definitiva da parte di Israele. Cosa succederà ora? Verrà ceduta?

L’ipotesi dell’espulsione dei palestinesi cristiani da Gaza (crimine a sua volta) che serpeggia con sempre maggior forza dietro le quinte, e che troverebbe in Herzog l’unico esponente israeliano con qualche chance dal punto di vista diplomatico. Benjamin Netanyahu ha un mandato di cattura emesso dal più alto tribunale internazionale che si occupa dei crimini commessi da individui, la Corte Penale Internazionale. Su Herzog non pende un mandato di cattura, almeno per il momento, ed è dunque colui che più impegnarsi in un’offensiva diplomatica che la prossima settimana lo porterà nel Regno Unito. Questo non significa, però, che Herzog possa chiamarsi fuori dal genocidio che Israele sta compiendo sui palestinesi. È il presidente, la più alta carica dello stato. Appoggia le decisioni del governo, come ha confermato nel suo discorso più recente. «Non c’è dubbio che in questa campagna militare siano state prese decisioni coraggiose e importanti in materia di sicurezza dalla leadership politica, che detiene l’autorità e le cui decisioni vengono attuate dal livello esecutivo», ha detto, pochi giorni fa a Gerusalemme, alla cerimonia per lo Israel Defence Prize. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte, a dire il vero. È l’esecutivo che decide la campagna militare. E un presidente sta a guardare?

È in parte il gioco che ha fatto Herzog, figlio dell’aristocrazia sionista che ha fondato lo stato di Israele. Presidente figlio di presidente, una vita tutta dentro il partito laburista, almeno sino alla consunzione di un partito su cui si era retta la storia israeliana. Herzog è questo, cioè quello che si legge in tutte le biografie. È anche, però, colui che è stato eletto a stragrande maggioranza, alla prima votazione, con 87 voti sui 120 membri della Knesset, in un momento di crisi estrema di Israele. Era l’inizio di giugno del  2021, e Netanyahu aveva perso per pochissimo le elezioni. Ed è vulgata comune che Herzog – proprio Herzog, il laburista soft e gentile – è stato eletto, con la forza dei numeri e dell’aritmetica, con il fondamentale contributo dei voti del Likud di Netanyahu. La politica interna israeliana è complicata. E così Herzog deve a Netanyahu la sua elezione, ed è apparso tutto chiaro nei primi nove mesi del 2023, in cui il sesto governo guidato da Bibi Netanyahu, con il fondamentale appoggio dell’estrema destra, ha tentato il golpe giudiziario. Herzog non ha fermato Netanyahu, nonostante alcune dichiarazioni contro la ‘riforma’ (il coup) giudiziaria che avrebbe distrutto l’architettura sionista di Israele. E dopo il 7 ottobre, ha sostenuto la linea Netanyahu (se linea c’è stata), andando anche oltre.

Quella famigerata e oscena firma, con un pennarello, delle bombe che sarebbero state sganciate su Gaza dice due cose di Herzog. L’assoluta imperdonabile distanza tra un gesto (e tutti ricordiamo il sorriso sul suo volto mentre firmava) e l’effetto devastante, criminale delle bombe sui palestinesi a Gaza. E l’adesione totale a ciò che in Israele la maggioranza pensa, non solo dal 7 ottobre. Che i palestinesi siano tutti responsabili di tutto: un corpo unico che è responsabile di non essersi arreso, soprattutto. Di non aver lasciato campo libero alla “affermazione” dello Stato sionista sulla terra di Palestina. Solo così si può interpretare l’altro gesto, l’altra frase imperdonabile e oscena. Tanto imperdonabile da essere andata a finire nel dossier che il Sudafrica ha presentato contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia nel dicembre 2023, accusandolo di rischio genocidiario. È «l’intera nazione palestinese a essere responsabile», aveva detto Herzog. E «non è vera la retorica secondo la quale i civili non siano consapevoli, né siano coinvolti» nel 7 ottobre. Colpa collettiva, punizione collettiva. E neanche la retromarcia che fece Herzog gli toglie la responsabilità di aver sempre appoggiato il governo israeliano, non solo a Gaza, ma anche sulla Cisgiordania. Dicendo, in sostanza, ciò che tutti sapevamo, sulla posizione laburista, la posizione di un partito che, al governo sino al 1977, è stato il primo a dare il via libera alle colonie illegali israeliane in Cisgiordania. Ora, dopo tanti decenni di costruzioni, occupazione, apartheid, distruzione del paesaggio palestinese della Cisgiordania, Herzog dice anche che lo smantellamento delle colonie illegali e il ritiro dei 700mila israeliani che ci vivono non è realistico. Dunque? Realistica l’annessione della Cisgiordania a Israele? Realistico il voto della Knesset contro qualsiasi ipotesi di Stato palestinese? Questo è il protagonista dell’offensiva diplomatica israeliana, il presidente Isaac Herzog. Colui a cui papa Leone ha stretto la mano e accolto con tutti (tutti) gli onori possibili.

L’articolo, pubblicato su Invisible Arabs, il blog di Paola Caridi sugli arabi invisibili, è qui ripreso con il consenso degli autori 

Paola Caridi e Tomaso Montanari (da www.volerelaluna.it del 5/9/2025)

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