INNO ALLA FRAGILITÀ
Il Dio sorprendente
Avviciniamoci alla Scrittura. La Parola di Dio è l’antidoto al veleno pericolosissimo che ci portiamo dentro e che lentamente ci uccide: l’idea di perfezione.
La Parola di Dio parte sempre da situazioni imperfette, così che la Bibbia sembra un inno alla fragilità e alla debolezza.
Letteralmente, in ebraico, il passo della Genesi in cui si racconta la creazione della donna suona così: «E disse Iod Elohim “Non è bene essere l’Adam lui solo: farò per lui un aiuto che gli sia contro"» (Gn 2,18). Dio ha appena collocato Adam nel giardino di Eden e ne avverte la solitudine, perché conosce i desideri e le mancanze della sua creatura prima ancora che essa stessa li possa sentire e formulare. E gli pone accanto un «tu» che ha la funzione di essergli contro, in modo che incontrandolo possa relazionarvisi e in questo modo diventare pienamente se stesso.
Senza limite e senza conflitto non c'è storia. Esistiamo solo grazie alle tensioni e ai limiti che sperimentiamo continuamente, grazie al confronto con punti di vista e caratteri diversi.
L’ostacolo è la condizione perché la luce possa manifestarsi; l’attrito è la condizione perché un movimento sensato possa verificarsi; il peccato è la condizione perché Dio possa rivelarsi nei miei confronti per quello che è: misericordia!
Togliendo il limite, non c'è più l’uomo e non c'è più Dio.
Nel suo libro Isaia preannuncia che verrà un giorno in cui l’epoca messianica potrà finalmente manifestarsi; allora il lupo dimorerà con l’agnello, gli opposti potranno convivere perché «un piccolo fanciullo li guiderà» (cfr. Is 11,6).
La fede cristiana ci dice che questo tempo è giunto con la comparsa di Cristo. Egli è infatti quel fanciullo che ha il compito di condurre insieme il lupo e l’agnello, il leopardo e il capretto, il vitello e il leoncello di cui parla il profeta.
Allora perché continuare a voler uccidere i lupi che sono dentro e attorno a noi per far vivere solo gli agnelli? Noi siamo un tutt'uno. La perfezione per noi sarà riuscire ad accettare le nostre parti più malate e a farle stare insieme con quelle più sane. Quello che siamo oggi è quello che abbiamo vissuto nella nostra infanzia. Noi siamo le ferite che ci sono state inferte, gli abusi subiti, le devianze vissute, con tutto il resto di splendido che ci portiamo dentro. Perché mutilarci, perché rifiutare alcuni aspetti di noi?
Significherebbe rinnegare noi stessi. Va da sé che raggiungeremo la santità, come si è poc’anzi accennato, non quando tutto questo mondo umbratile che ci portiamo dentro scomparirà, ma quando in tutto questo sperimenteremo la presenza di Dio che viene a farci visita e a manifestarci il suo amore.
E, si sa, queste famiglie luogo di rivelazione di Dio non sono certo modello di «perfezione», anzi! La prima di esse conosce immediatamente l’ombra della ferita e dell’accusa reciproca, è fin da subito luogo di povertà esistenziale. Vive al suo interno relazioni fragili. E «primo», in contesto biblico, non ha mai un significato cronologico ma piuttosto tipologico: esso sta per «fontale», originario, naturale, per cui la «prima famiglia» sta ad indicare che sono tutte così.
Ogni famiglia partorisce figli «malati»: Caino elimina Abele (cfr. Gn 4,8), Giacobbe prevale su Esaù con l’inganno (cfr. Gn 27), i figli di Giacobbe odiano Giuseppe sino a venderlo ai mercanti (cfr, Gn 37 e così via.